Se capitate a Londra il 24 di febbraio può darsi che piova.

Quest’anno pioveva eccome. Può darsi che vi troviate là per seguire uno degli innumerevoli concerti che la capitale del regno di Albione propone ogni santo giorno. Ho sempre pensato che, se abitassi là, probabilmente spenderei fino all’ultimo centesimo per seguirli tutti.

La University of London Union ha una sala concerti. E’ dotata di un palco spazioso, di una dance floor in parquet, di un bar con la birra che scorre a fiumi e di una zona adibita alla socializzazione pre e post concerto. Per un istante mi sono chiesto perché e come ho speso i miei vent’anni all’Università degli Studi di Torino, dove lo spazio più attraente era l’angusta auletta di una lista studentesca, dove si poteva fumare in barba all’odioso divieto. Vicino a me ed alla più meravigliosa compagna di concerti che la vita abbia mai saputo regalarmi, siede una coppia che potrebbe avere l’età dei miei genitori. E’ in quel momento che capisco che certe domande non hanno un senso e che non è il caso di rovinarmi la serata.

Fionn Regan è un irlandese di Bray, qualche manciata di chilometri a sud di Dublino. Suona delle chitarre che portano le iniziali del suo nome scritte con lo scotch isolante nero applicato sulla cassa. Ha dei capelli a caschetto imbarazzanti, veste degli improbabili pantaloni aderenti ed una camicia di panno a quadretti che potresti tranquillamente trovare nelle innumerevoli ed affollate bancarelle di Camden Town a due pound o poco più. Sembra capitato su quel palco per caso. Si muove con scatti nervosi ed ha gli occhi spiritati. Parla poco, ma in fondo è solo un dettaglio: per lui parlano le sue chitarre, la sua armonica a bocca e la sua voce, che non ha un’incertezza, mentre mischia il folk al rock ed al country, lungo le 13 canzoni della sua avara scaletta.

Fionn Regan ha inciso due album: The End of History nel 2006 e The Shadow of Empire, uscito da qualche settimana. Attualmente è in giro per l’Europa per promuovere il suo nuovo lavoro. Il primo disco è un gioiello di folk acustico e di melodie complesse che dipingono storie assurde, sul filo della sua poetica follia. Non è Nick Drake, non è Jeff Buckley, nè Elliot Smith, per carità. Ma il ragazzo si farà, io ci credo. Il secondo disco si veste di sonorità completamente diverse. Fionn mette da parte la sua acustica, imbraccia una chitarra elettrica e prova a farci ballare, anche se mi accorgo che la coppia sessantenne è più intenta alla birra che agli stanchi ancheggiamenti della facoltosa gioventù universitaria londinese. Fionn non è Bob Dylan, non è Neil Young né John Denver e men che meno Leonard Cohen. Ma il ragazzo si farà, io ci credo.

Fionn suona poco poco meno di un’ora e mezza e non c’è verso di strappargli una parola, un pezzo in più o un autografo sulla scaletta o una chiacchiera veloce. Figuriamoci le 5 famose domande di DeBaser. Se ne va così come è venuto, fra un fingerpicking di precisione imbarazzante, nonostante le sue dita così tozze e le pennate nervose di “Protection Racket”, canzone manifesto della sua ultima fatica.

Torniamo al bancone e poco dopo alla fastidiosa pioggia di queste parti, mentre la coppia sessantenne è già scivolata via silenziosamente, in mezzo alla gioventù londinese rumorosa ed alticcia. Nessuno sprecherà tempo a decifrare il sorriso che si è disegnato sui loro volti. Rimane l’impressione di un artista raffinato, in armonia con la propria musica, i propri strumenti e quella fisicità asimmetrica con cui ci ha regalato la sua musica.

Il ragazzo si farà, io ci credo.

Il resto è pioggia londinese.

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