Ogni barzelletta, libro, fiaba e film indipendentemente dalla sua oggettiva bontà/amenità può essere racchiuso dall’accomodante immagine di un placido lago oleoso al mattino. Non importa che sia la cazzuta Contea degli Hobbit, l’astronave di Star Trek, una vetta Himalayana, il preparativo di un’azione di guerra, un appartamento di Milano in periferia che si sveglia. Per quanto possa essere diverso l’ambiente dell’incipit si parte sempre con una situazione di equilibrio che viene, con infinite sfumature in termini di tempo e forza, scossa da quel fatto capace di fecondare la storia che raccontiamo/ci viene proposta. Può essere vento leggero, turbine di un’improvvisa tempesta, fottuta e fastidiosa pioggia inglese, frana fragorosa oppure possono essere secchiate gelide e furenti ad increspare le onde del lago cui sopra. Ma prima o poi il break, la storia, arriva.
Adoro le pellicole descrittive che con calma si soffermano sui particolari e senza fretta fotografano l’ambiente circostante; riescono a immedesimarmi con esso grazie ad una progressione ad imbuto senza forzature e con fastidiose e facilitanti voci fuori campo. Ma questa bella impalcatura è solo un mero punto partenza per un buon film perché quello di rottura, assai più importante, incombe sempre dietro l‘angolo. Quanti film sono andati sputtani o sminuiti nell’incolore aggettivo carino dopo il break?
IL "1984" NELLA D.D.R.
Il sole malaticcio lo si riesce a intravedere dalle finestre in un paio di sparute occasioni e non è un caso. Il grigio del cielo, i colori scuri o spenti dei vestiti ed il nero della notte prevalgono per dare allo spettatore non solo un’idea ma la sensazione di atmosfera opprimente, di soffocata libertà ad ogni azione nella D.D.R. di metà anni ‘80. Dialoghi secchi privi di un barlume di ironia si mescolano con terrore per le possibili ripercussioni che ogni minuscola deviazione dall’ordinario potrebbe generare: le parole usate o scritte vanno soppesate per non essere sospettati e quindi reclusi dall’organizzazione di sicurezza e spionaggio della Germania dell’Est alias STASI. Bastano una manciata di minuti e capiamo di essere all’interno di un anno, il 1984, che molto assomiglia al “1984” che tutti abbiamo letto. Solo in tale contesto di dissenso represso e suicidi in sequenza riusciamo a giustificare il protagonista che assume le sembianze di un iceberg. Sembra che sulle emozioni del protagonista: il capitano della STASI Gerd Wiesler ci sia passato l’esercito romano dopo la terza guerra punica e ci abbia messo su tonnellate di sale per non far crescere più un cazzo di nulla.
LA VITA IN QUELLA DEGLI ALTRI
Sembrerebbe per Wiesler (HGW XX/7) un compito simile a mille altri: solo più importante perché ricevuto da un po‘ più in alto rispetto al solito. Tuttavia quel sorvegliare l’insospettabile attore di teatro Dreyman e la sua bella compagna è come avrete già capito, miei acuti lettori, il soffio che con lentezza fa increspare le onde del laghetto. Non ci sono flashback e quindi siamo noi ad immaginare che forse nelle altre innumerevoli vite nelle quali si era intrufolato non si era mai imbattuto in quella nuova sensazione misto tra invidia, comprensione e compassione. E’ vento leggero, ma continuo.
Studia e compatisce lo scrittore in crisi oppresso dal dover comporre con il freno a mano perennemente tirato ed indubbio sul suo futuro. Il silenzio la spia anela la compagna di Dreyman, Christa, che per poter esternare la sua bravura sul palco paga ogni giovedì carnale e disgustoso scotto: cerca invano di lavarlo con sapone, lacrime e pillole. Muhe, con quella tuta in deprimente sintonia con l’aridità del Capitano che incarna, si dimostra un gigante (e per questo credo che ci mancherà molto) nel rappresentare la figura questo poliziotto. In molti casi nel cinema infatti personaggi enigmatici, profondi e magnetici ben strutturati nella fase di introduzione vengono estremizzati e snaturati nel secondo tempo.
HGW XX/7 mantiene invece la sua facciata di glaciale routine meticolosa mentre cerca senza successo di reprime con forza il cambiamento in atto nella sua personalità scossa da quel nuovo compito. Viene messo di fronte al contrasto totale tra la sua non vita e quella di Dreyman. Un’esistenza vuota ben espressa da un triste sugo al pomodoro strizzato in un tubetto che colora appena una pasta mangiata da solo in un appartamento spoglio; un'esistenza che si specchia con la scopata programmata sul divano con la prostituta/matrona del partito. Wiesler si ciba della passione della coppia mentre ascolta dalla soffitta e batte a macchina la loro vita che, nei limiti del contesto, è così piena e densa da parere miraggio al cospetto dalla sua. Ascolta con la cuffia in testa le penetranti note della sonata dell’uomo buono e sul suo viso vitreo si forma una ruga di dubbio. Di silenziosa e repressa rivolta.
Le 3 vite dei protagonisti in crisi si intrecciano così, tra le cimici del cartongesso, fino al finale pregno di phatos degno di chiudere un lavoro di indubbio livello che vi consiglio.
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Altre recensioni
Di Saltuario
Il film è spietato nel mostrare con quanta perizia l’occhio del Grande Fratello veda tutto, frughi in ogni angolo, entri nelle case ignare della gente.
Ma chi ascolta Beethoven non può fare la Rivoluzione, diceva Stalin, e finisce proprio che Wiesler, con le sue cuffie da spione, chiuso nello scantinato, ascolti Beethoven, e pianga.
Di Hal
"La città grigia e anonima trasmette voglia di fuggire e stanchezza di un'epoca ormai al tramonto."
"La trasformazione personale di Wiesler diviene il collante della vicenda, rivelando un’intensa umanità che travolge il protagonista."