Quarto album in studio per gli italiani Folkstone, band lombarda (di Bergamo), fautrice di un folk metal forgiato dall'esilarante connubio fra i classici strumenti elettrofoni (chitarra, basso) e i tradizionali aerofoni (cornamusa, flauto, raushpfeife, bombarda), che si stendono su un ovvio tappeto ritmico creato da batteria e percussioni, soavemente armonizzato dalle frequenti incursioni dell'arpa celtica. Con questo disco il gruppo abbandona totalmente l'atmosfera guerresca e medioevale del precedente "Damnati ad Metalla", e con essa anche quella più scanzonata e "tavernicola" dell'ononimo disco d'esordio, per perseguire un approccio musicale più accorto e ragionato (anche dal punto di vista lirico), mediante una più curata e raffinata ricerca sonora, atta a mostrare la conscia maturità artistica degl'otto lombardi. Un intento destinato a riuscire in parte. Certo, l'album parte alla grande: i primi cinque pezzi potrebbero far pensare a un nuovo capolavoro, ma questa è purtroppo una sensazione che tenderà a scemare man mano che "Il confine" farà fluire le sue trame musicali nelle orecchie di tutti noi. I testi (ancora una volta in lingua madre) si dimostrano meno sgraziati di un tempo, sebbene i temi trattati denuncino ancora lo stesso illogico connubio d'efficacia e ingenuità, che da sempre imbastisce le composizioni della band. Nonostante ciò, "Il confine" resta un disco da apprezzare almeno per i "momenti salienti" che lo caratterizzano, cioé mediante un pugno di pezzi davvero incantevoli.

Una melodia orientale (prima acustica, poi elettrica) introduce la title-track, dal bridge durissimo (quasi US metal) e dal refrain evocativo, dove irrompe il magico suono della cornamusa ad accompagnare il solenne canto di Lore. "Nebbie" è monolitica e caliginosa, una fosca allegorica testuale impreziosita da nivei passaggi celtici. "Omnia Fert Aetas" è un pezzo di medieval rock pesantemente influenzato dai Blackmore's Night, aperta dai suono pomposo del tamburo e delle percussioni, diventa poi un mid-tempo dal testo arcano e sognante.Com "Non sarò mai" emerge il lato polemico e anticonformista della band; una galoppata folk dal senso (più o meno) impegnato, dove la semplicità del testo farebbe pensare a una canzone concepita al fine di un messaggio sociale rivolto al pubblico più giovane. Ad ogni modo, il brano è di una carica adrenalinica pazzesca, e farà saltellare molti di voi. Ecco dunque "Luna" ballata celtica cantata in dialetto bergamasco, dove la tradizione lombarda rapisce il cuore dell'ascoltatore, gettandolo in un notturno e rilassato inno paesaggistico, fra il verde opaco di solinghe pianure sbiadite dal buio, che si stagliano ai piedi delle tonde colline e dei monti acuminati, dove risuonano i nordici echi di questa fantasmagorica ode.

A questo punto, dopo l'intermezzo celtico "Anomalus" , l'album cala notevolmente, presentando una serie di pezzi che, per quanto piacevoli, non riescono a velare una certa stanchezza di fondo: "Storia qualunque" e "Lontano dal niente" sono di una piattezza inaudita; tra di esse c'è "Frammenti" che è un po' meglio; sebbene riveli quasi una scopiazzatura del refrain di "Anime dannate" del precedente album. Stesso discorso per la conclusiva "Grige maree" che odora troppo di riempitivo. Si salvano invece "Ombre di silenzio" , struggente ballata elettrica sull'epilogo dell'esistenza umana e "Simone Pianetti", folcloristico elogio al brigante lombardo.

Un paio di curiosità: la dodicesima traccia è un'aggressiva e potente cover della celebre "C'è un re" dei Nomadi. Carina ma nettamente inferiore alla versione originale, sopratutto dal punto di vista vocale, considerando le straordinarie doti interpretative di Augusto Daolio. Abbiamo infine una versione alternativa di "Vortici Scuri", qui prodotta in un arrangiamento acustico per arpa, flauto, chitarra e voce. Il risultato e notevole, infatti, l'epos della versione originale è sostituito da un sofferto e malinconico inno alla Musa, evocata dal protagonista del pezzo, affinché la dea stimoli la sua ispirazione artistica. Sembra però che per questo disco, la Musa menzionata dai Folkstone (nella traccia nascosta di quest'album), abbia abbandonato il gruppo dopo la quinta canzone. Ecco perché la tracklist de "Il confine" , subisce degli sbalzi di qualità pari al caotico moto ondulatorio che compare nell'elettrocardiogramma di un cardiopata. Nonostante ciò, si tratta di un'album che vale la pena ascoltare, almeno per l'indiscussa bellezza della prima parte.

Federico "Dragonstar" Passarella.



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