Se Mario Bava ha tracciato le linee evolutive del giallo e del thriller all'italiana e Dario Argento ha perfezionato il genere portandolo, almeno nei primi anni di carriera, a vette qualitative e commerciali di tutto rispetto, altri autori - oggi ingiustamente considerati come "minori" ed in ogni caso dimenticati dal grande pubblico e dai più giovani - hanno dato importante linfa al genere, con interessanti variazioni sul tema, con lavori magari sottovalutati ma in grado di tenere desta l'attenzione dello spettatore, e soprattutto, come avviene per il film in commento... fare paura.
Opera di un pittore/intellettuale prestato solo occasionalmente al cinema o alla televisione (recentemente autore della fiction Rai "Giorni da Leone"), il film in commento rappresenta, a mio parere, uno dei massimi picchi del thriller all'italiana, assieme ai più noti "Profondo rosso" ('75) e "La casa dalle finestre che ridono" ('76), superando addirittura i segnalati lavori quanto ad eleganza di messa e fotografia, oltre che per impatto emotivo.
Preciso, innanzitutto, come "Il profumo della signora in nero" ('74) non sia il tipico giallo a sfondo razionale, tanto caro ad Argento e ad i suoi epigoni, come per certi aspetti allo stesso Avati nel lavoro poc'anzi menzionato, in cui il solito killer variamente bardato elimina varia umanità fino alla "agnitio" finale, descrivendo, piuttosto, la deriva di una mente fragile rispetto all'inatteso ingresso dell'imprevisto - e, per certi aspetti, del soprannaturale - nella sua vita.
La vita della protagonista Silvia Hackermann ci viene descritta, dapprima, nella sua normalità, dalla casa alto borghese nel quartiere Coppedè di Roma al quotidiano impiego presso una ditta di chimica, passando per i rapporti, talvolta problematici, con il proprio fidanzato e per i cortesi contatti con vicini di casa, conoscenti ed amici.
Dopo una sera passata in compagnia di alcuni colleghi del fidanzato, tra cui un africano che allude divertito a tradizioni e vicende soprannaturali della terra d'origine, la vita di Silvia cambia lentamente, in maniera impercettibile eppure significativa: stanchezza, scarsa voglia di lavorare, insistiti ricordi di un passato infelice e di un rapporto conflittuale con la defunta madre e con l'amante di lei, nervosismo e difficoltà a rapportarsi con gli altri. Di qui, in una lenta discesa agli inferi, visioni della madre morta - tanto vivide da sembrare reali - regali inattesi di uno sconosciuto che rimandano direttamente all'infanzia della giovane donna, partecipazione ad una seduta medianica con esiti disturbanti, la morte improvvisa della propria amica e vicina di casa, rapporti sempre più intensi con un anziano vedovo che vive nello stesso pianerottolo della donna. E poi l'apparire di una bambina misteriosa, che solo Silvia sembra vedere, che si installa in casa sua e intesse con la protagonista del film un ambiguo rapporto di figliolanza/sorellanza. Quando l'innaturale è ormai parte della vita di Silvia, la realizzazione di un trauma rimosso porta la donna ad una crescente aggressività e paura, che conduce al tragico sottofinale del film, fino ad un colpo di scena finale che ribalta completamente il senso della storia, per renderlo, semplicemente, più agghiacciante.
Su questo lavoro si dovrebbero versare fiumi di inchiostro, ma per i lettori di Debaser credo siano più opportune alcune considerazioni di sintesi attorno a certi punti focali del film, chiarendo perché si tratti di un'opera, per certi versi, eccezionale e meritevole di essere riscoperta, o vista per la prima volta.
Sotto il profilo contenutistico, pur riagganciandosi parzialmente a modelli noti come Hitchcock (Marnie) e Polansky (Repulsion), "Il profumo della signora in nero" sovverte molti luoghi comuni del genere giallo-thriller, alterando la solita sequenza "delitto-indagine-scoperta del colpevole" che caratterizza letteratura e cinema, e che in sostanza si muove all'interno di un paradigma razionalizzante di matrice ottocentesca, in cui il detective ristabilisce l'equilibrio violato e ricompone il reale infranto (si pensi, in maniera paradigmatica, alla ricomposizione dello specchio nel finale di "Profondo Rosso"). Nel film di Barilli, infatti, il paradigma è del tutto differente, in quanto, senza troppo anticipare gli esiti della vicenda, la storia si sviluppa nella direttiva "identificazione della vittima e dell'omicida-delitto-scoperta del colpevole", lasciando lo spettatore del tutto privo di riferimento fino alle scene conclusive del film.
Proprio in aderenza all'atipico sviluppo dell'intreccio, non vi sono scene di violenza fino ai dieci minuti finali dell'opera, in cui, viceversa, si assiste ad una escalation che, dapprima, conferisce al film quasi il carattere di uno "slasher movie", per svelare, solo al culmine del pathos violento, la vera matrice delle vicende che hanno visto coinvolta Silvia Hackermann.
Sotto il profilo formale, il film risulta, forse, ancora più importante. Va notato come Barilli, in quanto pittore, curi particolarmente l'allestimento scenografico del film, che in massima parte si sviluppa in interni caratterizzati, da un lato, da arredamenti estremamente realistici e, dall'altro, dalla irruzione di luci del tutto artificiose ed irreali (viola, verde, blu, rosso), che hanno un essenziale ruolo nella creazione di un'atmosfera malsana e nello stesso sviluppo della storia, con funzione narrativa: riecheggiando gli stati d'animo della protagonista, o addirittura anticipando l'esistenza di pericoli o "apparizioni", le luci sono, esse stesse, protagoniste del film. In parte anticipato da Bava in "Sei donne per l'assassino" ('64), questo gioco sarebbe stato portato agli estremi da Argento in "Suspiria" ('77) e, soprattutto, in "Inferno" ('80), che, per certi aspetti, risulta fortemente influenzato dal film in commento, sia nel senso di fondo della storia che nella scelta delle location romane (la casa è la stessa che si vede in Inferno).
La qualità della regia, della fotografia, e delle riprese è degna di particolar nota, anche perché Barilli si avvalse di alcuni membri della troupe di Antonioni, ritraendo gli interni di una Roma ora borghese, ora antica, sempre e comunque decadente. Estremamente valide anche le musiche dell'esordiente Nicola Piovani.
Alcune trovate narrative sarebbero state saccheggiate nel corso dei decenni successivi di insospettabili autori: da Kubrick che, in "Shining" (?80), veste le gemelle allo stesso modo - salvo i colori - della bambina che vive con Silvia Hackermann, a Verbinsky, che in "Ring" ('03) fa apparire la mamma di Samara come la madre della protagonista di questo film.
Da ultime, alcune notazioni sulle interpretazioni: ottima la protagonista Mimsy Farmer, già vista in "Quattro mosche di velluto grigio", particolarmente calata nella parte, ma davvero eccellenti le caratterizzazioni di tutti i personaggi di contorno, con menzione particolare per Mario Scaccia nel ruolo del vedovo e di Orazio Orlando nel ruolo dell'amante della madre di Silvia.
In sintesi, un film da vedere: sia per la sua qualità intrinseca e valenza storica, che per la sua attitudine a far paura: non vi dico il perché, ma nel corso della storia ci sono tre o quattro sorprese che - se non vi faranno perdere il sonno - vi lasceranno cattive sensazioni in testa.
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