Una volta la mia ex-, in uno dei suoi frequenti momenti di lucidità lapalissiana, mi ha detto: Tutti i tuoi eroi sono morti. Io guidavo e quasi non le diedi retta, ma quella frase mi è rimasta impressa e, col tempo, ho iniziato a considerarla come uno dei pochi e migliori complimenti che abbia mai ricevuto. Sì, perché i morti non ti tradiscono: Bolaño non può più scrivere un romanzo pessimo, de André non può più comporre un album che mi disgusti – quello che vedi è quello che prendi, niente di più e niente di meno. 

Con Guccini, però, il discorso è diverso, e forse è questo che lo mette, nella mia testa, una spanna sopra gli altri, perché su di lui ripongo fiducia o qualcosa di molto simile alla fiducia... o almeno vorrei poterlo dire. Il problema è che potrebbe non essere così: per esempio, potrebbe essere che, qualsiasi cosa facciano, io la giudichi come qualcosa che non può non piacermi per il solo fatto che apprezzo in gran misura il loro background artistico, tutto ciò che è venuto prima. È il dilemma del fan, nonché ciò che rende necessaria questa premessa alla recensione, che è solamente la recensione di un fan, per di più nemmeno così approfondita. Volevo scriverla, tutto qui. Spero che qualcuno riesca a fare meglio di me, io ieri ho comprato l'album e l'ho ascoltato tutto il giorno, ma sono sicuro che a furia di riascoltarlo scoprirò cose che finora mi sono sfuggite: è solamente un omaggio, tutto. Il mio modo per ringraziare Guccini per avermi accompagnato nella vita): sono cresciuto a pane e Guccini, e Guccini per me c'è sempre stato (quando la ragazza di cui sopra mi ha mollato, quando è morta mia nonna eccetera). Sono stato a più di una decina di suoi concerti, conosco le canzoni a memoria e nella mia vita molti ricordi portano i nomi di quelle canzoni, e purtroppo con questo disco siamo giunti alla fine e la fine di qualcosa, qualunque cosa sia quel qualcosa, ha molto a che fare con la morte, o almeno io l'ho sempre vista così. Quando una ragazza ti lascia, quando il tuo cane muore, quando prendi il diploma o quando cala il sole. Facciamo i conti quotidianamente con la morte, e alcune cose (il passare di un nuovo giorno, per esempio) solo in particolari circostanze vengono percepite come ultime perché ne siamo come mitridatizzati, ed è necessaria una sottile sensibilità per carpire tutto questo e riuscire a esternarlo – sensibilità che, a mio parere, è il punto di forza del Maestro; così, “L'ultima Thule” ha tutte le carte in regola per essere considerato un testamento, già dalla tracklist, dove ricorrono parole come ultima, testamento, notte, quel (che indica comunque un distacco, un allontanamento), e non parrà quindi strano che il primo (e, conoscendo di chi si parla, forse l'unico) singolo del disco è appunto “L'ultima volta”, che ricama su un tema ormai caro all'artista, ovvero il passare del tempo, il suo incessante scorrere che va a depositarsi, almeno in parte, nel serbatoio della memoria. 

Quando il giorno dell'ultima volta 

che vedrai il sole nell'albeggiare 

e la pioggia ed il vento soffiare 

il ritmo del tuo respirare 

che pian piano si ferma e scompare. 

Com'è possibile creare un'immagine della morte così dolce, romantica, tenera, nitida, tutt'altro che angosciosa e quasi sognante? Assieme a qualcosa di Pessoa, è una delle cose più belle che abbia sentito/letto riguardo la morte. E poi quel distico  

un qualcosa lasciato al domani, 

un'attesa di sogno e di oscuro,

con quell'ossimoro finale che, di per sé, si lascia abusare come una ERASMUS a Perugia ma che Guccini reinventa a mo' di sinestesia, è da brividi, tanto più che sembra riecheggiare il finale di "Culodritto" quando dice 

Vola, vola tu, dov'io vorrei volare 

verso un mondo dove è ancora tutto da fare 

e dove è ancora tutto o quasi tutto da sbagliare. 

Si capisce bene, insomma, che da qui al testamento artistico (“L'ultima Thule”) il passo è breve, ma prima c'è un rivangare nella propria vita, un frugarci dentro a metà strada tra le illusioni spente dal tempo e la nostalgia di altri tempi. Esemplare, in questo caso, l'apertura dell'album, dove i genitori di Guccini dicono a un Guccini-bambino ma con la voce del Guccini di oggi, quasi a voler raccordare le due esistenze della persona, di smettere di leggere e spegnere la luce – Guccini, ormai più vecchio dei suoi genitori. È “Canzone di notte n. 4”, dove l'incertezza che porta il pensiero della morte (“E allora notte che mi porterai / rimpianto, quiete, noia o verità? / O indifferente a tutto te ne andrai / senza pietà?”) è anticipata dal sentimento panistico della natura, personificazione (non a caso si rivolge ad essa tramite apostrofe) dell'infanzia pavanese del nostro.

Ehi notte che mi lasci immaginare,

fra buio e luci, quando tutto tace,

i giorni per la quiete e per lottare,

il tempo di tempeste e di bonacce.

Notte tranquilla che mi fai trovare

forse, la pace.

Ma la notte non è solo questo, anzi. La notte è anche la summa della propria vita, il momento contemplativo che scaglia, sì, una luce incerta sull'avvenire ma che riesce a dare un senso al resto.

Con l'incoscienza potrai 

spenderle tutte in sogno

per annegare il rimpianto

e dare voce al tuo tempo,

o forse le dimenticherai,

o forse le ascolterai.

Non c'è bisogno di scomodare Epicuro, dicendo che l'aldilà diventa un problema solamente nel momento in cui lo si pensa, e che nel momento in cui la vita c'è la morte non c'è e viceversa, perché, al di là della logica, la morte fa paura – significa separazione, perdita, non-senso. Pensare di lasciare se stessi, voglio dire: perché? Ma cosa ne sarebbe, se avessimo l'eternità davanti, se un amore fosse infinito e non dovessimo lottare ogni giorno per conquistare un pezzo di terreno?

Voltarti indietro stupito,

ché non sei neanche partito.

Sono domande banali, che cercano risposta da sempre e che fingono di trovarla presso teologie di qualche tipo o chissà che, cose che non riescono mai a esautorare il dolore che la morte porta appresso. Il punto è che non c'è solo questo, e se “L'ultima Thule” è un addio – come ogni addio – è pervaso di vita. Ecco dunque il dittico “Su in collina”/”Quel giorno d'aprile”. Il primo è un memoriale della resistenza partigiana scritto da Gastone Valdelli (“Mort en culleina”, qui in traduzione letterale), che Guccini ha iniziato a proporre ai concerti dal 2006. A differenza delle altre canzoni del disco, non cerca nemmeno un appiglio alla speranza, quindi dimenticate Leonard Cohen quando, a proposito della resistenza francese, cantava 

freedom soon will come

perché, sebbene la canzone successiva ne parli, qui è persino inutile farne accenno; è il pezzo meno barocco dell'album, il testo che, nel suo crudo realismo, racconta un aneddoto, uno spaccato della nostra storia, senza ideologismi né sofismi.

Il secondo pezzo, “Quel giorno d'aprile”, è la chiusura di questa storia, la celebrazione della liberazione che mostra una gioia comune (quella del popolo italiano) composta da varie solitudini, lutti, vite frammentate e frammentarie (quelle degli italiani).

Se la guerra è finita perché ti si annebbia di pianto

questo giorno d'aprile?

Il cuore della canzone, infatti, è un netto ripiegamento dell'io sull'io, in cui, nella cornice festosa del 25/04, madre e figlio concretizzano che il capofamiglia non tornerà a casa.

E l'Italia cantando ormai libera allaga le strade,

sventolando nel cielo bandiere impazzite di luce,

e tua madre prendendoti in braccio piangendo sorride

mentre attorno qualcuno una storia o una vita ricuce.

E chissà se ha addosso un cappotto

o se dorme in un caldo fienile,

sotto il glicine tuo padre lo aspetti

con il sole d'aprile.

Il finale, poi, riporta tutto all'odierno, all'oblio cui abbiamo condannato quel pezzo di storia italiana condannando di conseguenza noi stessi

perché dentro di noi troppo in fretta

si allontana quel giorno di aprile.

La memoria ritorna, e più di tutte torna la necessità di averne consapevolezza, di non dimenticare &cc. &cc.

Accanto a questa diade ne è inoltre ravvisabile un'altra, anche se inframmezzata dalla già accennata “Notti”, ovvero “Il testamento di un pagliaccio”, caustica e ironica riflessione sul ruolo dell'arte oggi, e “Gli artisti”, dove l'artista, umanizzato, è scorto nella sua ambivalenza, da una parte per la sua fortuna di vivere nell'utopia e dall'altra nella sua effimeratezza.

Fabbrico sedie e canzoni,

erbaggi amari, cicoria,

o un grappolo di illusioni

che svaniscono dalla memoria,

e non restano nella memoria.

Il tutto si chiude col pezzo che dà nome all'album, “L'ultima Thule”, quest'isola (forse mitica) di ghiaccio e di fuoco. È il testamento di Guccini, vera summa della sua vita e della sua carriera.

E qui da solo penso al mio passato,

vado a ritroso e frugo la mia vita,

una saga smarrita ed infinita

di quel che ho fatto, di quel che è stato.

La storia di colui che ha doppiato tre volte capo Horn ed è alla ricerca di Thule, una ricerca forzata, obbligata, accettata. 

Ma ancora farò vela e partirò

io da solo, e anche se sfinito,

la prua indirizzo verso l'infinito

che prima o poi, lo so, raggiungerò.

La straordinaria musica di evocazione celtica (scritta da Guccini stesso) accompagna l'incedere delle strofe in un incessante accettazione del proprio destino: il capitano è pronto.

...Okay, esagero & magnifico. Ma una chiusura – di album o di carriera, prendetela come vi pare – del genere, per un fan, è l'apoteosi. Non ci sono più né Odysseus né Cristoforo Colombo, ma viene ripreso il topos del mare, del viaggio – questa volta l'ultimo e forse il primo (l'Odysseus dantesco era mosso dall'ossessione della curiosità, quello omerico era condannato al vagabondaggio marittimo e la traversata di Cristoforo Colombo era segnata dall'incertezza) ad essere fatto per volontà propria, per la consapevolezza di aver compiuto ciò che era da compiere e per l'insensatezza di rimandare.

L'ultima Thule attende al Nord estremo,

regno di ghiaccio eterno, senza vita,

e lassù questa mia sarà finita

nel freddo dove tutti finiremo.

È la canzone che deve necessariamente giungere per ultima e non solo in forza di fattori cronologici ma anche perché è quella che getta nuova luce su tutte le altre, almeno quelle presenti nell'album in questione; in questo senso, insomma, ciò che lo precede è una sorta di preparazione, di testamento prima dell'ultimo cammino. Ha qualcosa a che fare col mistico, ma lungi da me interpretare il lotto così: è semplicemente la storia di un uomo che è pronto e fa testamento a seguito di una lunga analisi su se stesso attraverso la memoria e il ricordo, dopodiché parte e a noi non resta che salutarlo e brindare almeno una volta a lui, a quello che ci ha dato, che ci ha trasmesso: Guccini è l'artista umano per eccellenza, è il tipo di persona che ascolti non solo perché fa il suo lavoro coi controcoglioni ma anche perché, ascoltato un suo album, ne esci arricchito, triste o sollevato che ti senti infine. E ne hai bisogno, di artisti così, perché ogni giorno il sole sorge e poi muore e ogni giorno è un eterno morire che non riuscirei ad affrontare senza i miei Guccini, i miei von Trier, i miei Nick Cave o i miei Pessoa. Ti verrebbe da dirgli grazie, a Guccini e a tutti quelli che, giorno per giorno, ti stanno vicini con le loro opere, rendendo la vita un po' meno triste, un po' più sopportabile; una volta la mia ex- mi ha detto che preferiva Guccini a de André perché in Guccini ritrovava la voce di un parente lontano, invecchiato che ti racconta storie che ti fanno crescere, ti fanno sentire al sicuro o qualcosa del genere. 

Credo non esista definizione migliore.

L'ultima Thule attende e dentro il fiordo

si spegnerà ogni mia passione,

si perderà in un'ultima canzone

di me e della mia nave anche il ricordo.

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