Cerea ragazzi/e, oggi parliamo di un film, ma, prima di tutto, di una città che rappresenta, probabilmente, una categoria dello spirito: Torino.
Questa, secondo me, è Torino: strade rettilinee, viali ampi, dimore sabaude e ville liberty, periferie industriali che si stagliano improvvise fra prati, riserve di caccia memori di antichi splendori, circonvallazione che si perde chissà dove, prototipi Fiat che girano in prova, museo del cinema e la guglia della Mole, mercatini di libri usati attorno a Piazza Castello e Balòn, mummie egizie un po' spaesate, cioccolata e Galleria Subalpina, stadio e campetti di periferia, ciclabili e spacciatori.
Se quella è Torino, questi i torinesi: torinesi torinesi, torinesi terroni di prima, seconda, terza generazione, torinesi rovigotti post alluvionati e furlani post terremotati, torinesi maghrebini, torinesi pakistani di prima, seconda e terza generazione, e, ça va sans dire, i grissini torinesi con cui pasteggio in pizzeria, ed anche i rubbattà. Girando per Torino sai di poter vedere Totò Merumeni e la scimmia Macachita, Salvo l'operaio, l'architetto Garrone nel giorno in cui è morto, Giustina la commessa, Primo Levi e Franco Lucentini meditabondi sulle scale di casa, Rashid il venditore di rose, l'investigatore Arrosio e la fede nella statistica, Carmelo studente fuori sede, Erminio Macario e due soubrette, Mariano il perito elettronico e suo nipote ospite per tre giorni, la signora Tabusso e la sua borsa, due jazzisti ubriachi in piazza CLN... oltre ad una teoria di personaggi un po' veri ed un po' finti come quelli che - esaurite queste premesse - troviamo nel film che oggi vado a recensire, al solito con Voi ed, al solito, per Voi, nell'ennesima tappa del nostro viaggio alla riscoperta del cinema italiano 'minore'.
Per la regia del non troppo noto Francesco Massaro, "Al bar dello sport" ('83) poggia sulla solida sceneggiatura di Franco Ferrini, Enrico Vanzina ed Enrico Oldoini, che, per certi aspetti, spostano nella capitale sabauda, e nelle sue mescolanze, atmosfere tanto care al vecchio capolavoro di Steno, "Febbre da cavallo", anche qui inscenando le piccole follie e le grandi speranze che, nell'Italia industriale dei primi anni '80, si correlavano alla mitica schedina del totocalcio, oggi puro modernariato mandato in soffitta dalle scommesse on line.
Il film ci narra le peripezie di Lino, immigrato pugliese, interpretato da Lino Banfi, che, grazie al fortuito aiuto dello sguattero sordomuto Parola (Jerry Calà) riesce a fare il mitico 13 puntando sulla Juventus sconfitta in casa dal Catania, così innescando una serie di disavventure ed equivoci attorno agli amici ed avventori del bar in cui si è giocata la schedina, nei propri familiari e nella eterna fidanzata - cassiera del bar - Rossana (Mara Venier), alla ricerca del fantomatico neomiliardario. Varie peripezie porteranno Lino e Parola fino a Montecarlo, dove...
Sostenuto da un buon ritmo e da un eccellente Banfi, che dà il meglio di sé nella parte dello spiantato meridionale che non riesce ad adattarsi alla società settentrionale e desidera un'eterna fuga verso un ipotetico Altrove, il film va ricordato, a mio parere, soprattutto per lo spaccato sociologico di certa periferia settentrionale tipicamente anni '80, in cui personaggi di varia natura ed estrazione, varie storie e varie prospettive si incontrano nel mitico bar sport per scommettere sul proprio futuro, e su un'alternativa al magro presente: ne viene fuori un ritratto assieme poetico e disarmante, enfatizzato dal gramelot linguistico che si parla nell'anonimo baretto di periferia, dal veneto della cassiera Rossana al lumbard del titolare dell'esercizio, passando per i fuochi d'artificio del pugliese Banfi e degli amici calabresi (un giovane Sergio Vastano) e campani. Il controcanto a questo coro dialettale lo dà il muto Parola, unico personaggio senza voce/senza radici, e non a caso il motore che innesca la stessa vincita di Lino, spronandolo ad abbandonare la routine verso un futuro diverso e disancorato dai soliti volti, e dalle solite umiliazioni quotidiane (datore di lavoro, strozzini, parenti serpenti, nipote insopportabile) e dai frustranti tentativi di inserimento in una realtà che lo rifiuta.
Al di là dei possibili significati del film, "Al bar dello sport" si ricorda anche per alcune divertenti scene comiche e la fulminante descrizione dei caratteri: da applausi e caratterizzate da un cinico realismo, in particolare, tutte le scene che vedono protagonista Banfi, la sorella, il cognato ed il nipote, tipica famiglia di meridionali che, incapaci di farsi accettare per quello che sono, tentano di inserirsi al nord assumendone accenti, costumi, modi d'essere, scatenando le ire dello stesso Lino (che poco politically correct li definisce come dei marocchini rifatti).
Non meno interessanti, per quanto già osservato, i caratteri degli avventori del bar, personaggi che tristi, solitari e finali, alla ricerca di un riscatto nel gioco, e, dunque, nel Caso supremo.
E forse non è casuale che il gioco, il fortuito, l'accidente siano qui inscenati nel superbo scacchiere torinese, nell'intrico di vie e simboli che, memori di un antico e perduto disegno, di un'antica e persa razionalità: se in principio era il Verbo/Logos, in questo film non resta che Parola, nel suo assurdo e quasi esistenziale mutismo.
Scusate se per oggi sono stato un po' troppo pesante, sovraccaricando di significati quella che, al dunque, resta un commedia all'italiana di discreta fattura e riuscita - salvata dai soliti artigiani del nostro cinema (Annabella Schiamone, Enzo Andronico, Dino Cassio, Ennio Antonelli: grazie!) - ma quando si parla di Turìn si parla di Turìn (neh)... ed anche il Vostro il Paolo ha le sue fisse.
Verbalmente Vostro
Il_Paolo
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