La solitudine e il suono.  

La solitudine ha il volto e le movenze di un Gene Hackman (Harry Caul) perfetto nel rappresentare la fragilità di un uomo chiuso, introverso, schivo al limite della misantropia. Un intercettatore pagato, da non sa bene nemmeno lui chi, per spiare, pedinare, ascoltare e registrare. Tutto. E tutti. La solitudine è un qualcosa che Harry ha finito per autoimporsi: è un equilibrio sottile costruito sul dubbio e sul sospetto. Su una quotidianità fatta di chiavi infilate nella toppa senza far rumore, rubinetti aperti per parlare indisturbati, e amicizie, persino l'amore, che gli sfuggono fra le dita mentre lui osserva e ascolta, impassibile. Vicini, amici e amanti, tutti possono essere parti di un complotto, membri di una congrega. Tutti possono essere degli spioni. Proprio come lui.

Non sappiamo esattamente cosa scatti, ad un certo punto, nella mente di Harry, cosa gli faccia perdere il controllo, il distacco con cui ha sempre svolto il suo lavoro ("Io me ne frego, sono cavoli loro. Voglio solo una bella registrazione chiara"): forse un'ombra del passato che sembra doversi ripetere, un senso di colpa per un fatto tragico di qualche anno prima di cui si sente responsabile. Oppure solo un risveglio della propria umanità, la reazione ad un processo che lo sta portando ad identificare la propria vita col suo lavoro, il suo corpo con gli strumenti di intercettazione che lui stesso ha progettato, realizzato, creato. Non lo sappiamo, eppure, ad un certo punto, Harry ascolta qualcosa che non avrebbe mai voluto ascoltare: una giovane coppia è in pericolo di vita. Verranno uccisi se non fa qualcosa, saranno vittime di una macchinazione, della mente di un folle, di una specie di Grande Fratello insondabile e più grande di ognuno di noi, e di cui Harry è stato lo strumento. E, che lo voglia o no, il complice.

E così l'equilibrio si spezza. Inizia, per Harry, una progressiva discesa tra i tarli che gli abitano la mente, uno stravolgimento (à là "Blow Up") della realtà che lo circonda, una lotta persa in partenza contro qualcosa che lui stesso ha contribuito a creare e che ora non riesce più a fermare. E la solitudine diventa paranoia.

Il suono è un sax usato raramente, lontano da orecchie indiscrete, forse per passione, forse per rovinare la festa a qualche cimice piazzata chissà dove. Forse. Il suono è un allarme messo a fare la guardia al proprio appartamento, ma che non riesce a fermare la vicina del piano di sotto. È lo squillo di un telefono di cui nessuno conosce il numero. O perlomeno non dovrebbe. Il suono è l'ossessione di Harry: è un lavoro per il quale sembra dotato di un'abilità e di un'inventiva fuori dal comune, ma che non finisce mai, lo insegue di notte, nei gesti, nei pensieri. Il suono sono le parole di quella giovane coppia che Harry riesce a decifrare tra il rumore della folla, senza rendersi conto che, così facendo, quella maledetta conversazione si imprimerà, ancor più che su un nastro magnetico, nella sua mente. Il suono è soprattutto il contributo immane di Walter Murch. Suo il merito di aver saputo orchestrare e manipolare, meglio di qualsiasi strumento, una serie infinita di effetti, campionamenti, scatti di registratori, riavvolgersi e ripartenze di nastri, fino a renderli oppressivi e opprimenti, più di quanto potesse fare una qualsiasi colonna sonora. Perché ciò che sentiamo della pellicola è ciò che Harry sente, o crede di sentire. È la dodecafonia delle interferenze, quella sinfonia gracchiante di ricezioni disturbate che ha trovato dimora tra i pensieri del protagonista, e che non sembra intenzionata ad andarsene. E il suono diventa rumore.

Coppola gira "La Conversazione" a cavallo tra i primi due capitoli della saga dei corleonesi (l'anno è il 1974), quasi rinunciando a quella "megalomania" che spesso accompagna i suoi personaggi e il suo girare. La misura della sua regia sta tutta nella sequenza iniziale, nell'estenuante suspence di quei cinque minuti di zoom: un occhio che inizialmente sembra voler gettar uno sguardo sull'umanità intera, ma che, poco alla volta, lentamente, inesorabilmente, si stringe e si concentra su un'unica figura, sulla storia di un unico uomo, piccolo e triste. L'epopea cede il passo alla narrazione di ciò che avviene dietro le quinte, la leggenda lascia posto alla mediocrità di un uomo qualsiasi.

Dal punto di vista puramente tecnico, e trattandosi di un thriller, inevitabile è il riferimento a chi del thriller più o meno politico, più o meno psicologico, è l'indiscusso maestro: Alfred Hitchcock. Ma se nei capolavori anche più tesi e violenti di quest'ultimo vi è quasi sempre spazio per lo humor ("La Finestra Sul Cortile"), per la sfumatura pruriginosa ("Psycho"), per il puro intrattenimento (ideale a tal fine la faccia da guascone di James Stewart), in "La Conversazione" non trovano posto né il divertimento, né il sentimento. L'unico amore che viene concesso a Harry (ma sarebbe forse più corretto dire "l'unico amore che si concede Harry"), è un amore triste, fatto di incontri occasionali o, peggio ancora, interessati. È un qualcosa che non riesce mai a perforare la corazza di paure, insicurezze e diffidenza che il protagonista si porta addosso. Anche l'unica sequenza in cui per un attimo pare alleggerirsi quella tensione e quel malessere che sembrano incombere sull'esistenza del personaggio (la festa nel laboratorio), si rivela il preludio all'ennesima delusione, all'ennesima violazione della propria intimità. Perché quello de "La Conversazione" è un Coppola spietato e privo di compassione, che nella seconda parte del film  trascina lo spettatore in quella stessa spirale di paranoia di cui è vittima il protagonista, fatta di immagini, incubi, allucinazioni visive e, soprattutto (e inevitabilmente) sonore. L'intero registro del film, per una breve, ma interminabile, sequenza (quella dell'albergo), sembra stravolgersi: è la visionarietà di Lynch che, per una manciata di minuti che pesano come macigni, si impossessa della macchina da presa. Sono gli stessi incubi su cui Kubrick, qualche anno dopo costruirà l'orrore dell'Overlook Hotel a far visita alla mente turbata e confusa del povero Harry. E, in tutto questo, il regista si tiene a debita distanza, limitandosi ad uno sguardo distaccato, quello di chi osserva senza intervenire, ascolta e registra tutto (proprio come Harry), ma senza lasciarsi coinvolgere, senza farsi carico delle sofferenze dei propri inscenanti.

Il colpo di scena finale (che, si badi, nulla realmente rivela su chi siano davvero le vittime e chi i carnefici), finisce così per essere la beffa definitiva, la più crudele delle vessazioni psicologiche che la mente del povero Harry sarà chiamata a sostenere. Non c'è pietà o compassione. Non c'è nemmeno il "buon cuore" di lasciare che quest'uomo possa uscire di scena sconfitto, certo, ma in pace. Di lasciargli intatta quella miserevole vita che si era a fatica costruito. L'ultima inquadratura finisce così per essere quasi l'impietosa conclusione di una sorta di documentario sull'esistenza triste e impaurita di un uomo, incapace di raccogliere forse nemmeno la compassione dello spettatore.

Perché, alla fine di tutto, ciò che rimane sono soltanto un uomo e il suo sax. La solitudine e il suono.

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