“Dieci Stratagemmi” era stato un album intellettualmente vivace. In esso Battiato era ancora vitale, sebbene la scaletta si concludesse con un brano dagli umori apparentemente apocalittici come “La porta dello spavento supremo (il sogno)”:

“Quello che c'è, ciò che verrà
ciò che siamo stati
e comunque andrà
tutto si dissolverà
Nell'apparenza e nel reale
nel regno fisico o in quello astrale
tutto si dissolverà

Sulle scogliere fissavo il mare
che biancheggiava nell'oscurità
tutto si dissolverà

Bisognerà per forza
attraversare alla fine
la porta dello spavento supremo”


Il conoscitore smaliziato di Battiato non si sorprenderà più di tanto, abituato all’approccio esistenzialista che soggiace alle liriche del cantautore siciliano, spesso coadiuvato dall’amico filosofo Manlio Sgalambro: da un lato, uno sguardo feroce rivolto a quel mondo materiale che è dominio di vizio e corruzione; dall’altro, la ricerca spirituale che innalza ed eleva alla virtù.

In verità, nel Battiato-pensiero la Morte viene superata attraverso la ricerca del Divino (“E ti vengo a cercare” ne è l’esempio più noto). In questo percorso, le discipline orientali, le pratiche di meditazione sono strumenti utili per raggiungere una maggiore consapevolezza; l’immortalità, infine, l’individuo la trova confluendo nell’Universale, come parte di un tutto, e il meccanismo della reincarnazione ha in questo un ruolo (a proposito di “nuove forme di esistenza” si vada a leggere i testi di “Il mantello e la spiga” e “Vite parallele”). La Morte non è pertanto una novità in casa Battiato, ma anche quando il tema veniva in passato trattato in modo esplicito, raramente il discorso si ammantava di toni drammatici: lo sguardo severo ed accigliato era piuttosto rivolto alla pochezza ed alla vacuità dell’esistenza terrena; ma quanto alla Morte stessa, essa veniva contemplata con sereno distacco o, nel peggiore dei casi, con ironia. In “Breve invito a rinviare il suicidio”, per esempio, egli cantava:

”Va bene, hai ragione,
se ti vuoi ammazzare.
Vivere è un offesa
che desta indignazione...
Ma per ora rimanda...
E' solo un breve invito, rinvialo.”


Era il 1995, Battiato aveva cinquant’anni. Già dieci anni più tardi (“Dieci stratagemmi” è del 2004) il suo sguardo si inacidirà; quasi vent’anni dopo il discorso si farà ulteriormente più cupo:

“Ho voglia di appartarmi e di seguire la mia sorte, perché morire è come un sogno.

Pura, Inaccessibile, Avvolta in una Eterna Ombra solitaria,
Oscurità, Impenetrabile, Intensa, Impervia, Immensa…
ha dato vita agli Dei, nessun uomo ha mai sollevato il suo Velo”


Questo è dunque l’ultimo Battiato, quello di “La polvere del branco”, episodio cardine di “Apriti Sesamo” (2012), ad oggi l’ultimo album di inediti rilasciato dall’autore. Fra questi versi e la sentenza de “La porta dello spavento supremo (il sogno)”, vi era stato “Il Vuoto” (2007), un album artisticamente tiepido e dai toni moderati, che aveva tuttavia costituito un passo ulteriore per gli sviluppi del “posizionamento esistenziale” dell’artista. Il Battiato di “Dieci Stratagemmi” stava ancora nel mondo: affermava con fierezza la sua solitudine (che si macchiava di elitarismo in “Le aquile non volano a stormi”), rivendicava con forza la sua indipendenza intellettuale (“I’m that”) e si confrontava con i temi dell’attualità (criticava la politica internazionale dell’allora presidente degli Stati Uniti George Bush JR in “Ermeneutica”), dispensando persino saggi consigli su come affrontare i momenti difficili (“Conforto alla vita”).

Ne “Il Vuoto” Battiato è già in fuga dal mondo moderno: sempre più critico verso la frenesia e la futilità dell’odierno (“Il vuoto”), annoiato e innervosito dal caos della modernità (“The game is over”) e persino scettico nei confronti delle relazioni interpersonali (“I giorni della monotonia”), egli compie un ulteriore sforzo di introspezione, coltivando la sua personale idea dell’immortalità (“Aspettando l’estate”), guardando con simpatia alla freschezza della gioventù (“Era l’inizio della primavera”), trovandosi infine a contemplare la saggezza, l’equilibrio, l’armonia della Natura (“Tiepido aprile”).

L’album “Apriti sesamo”, sorta di capitolo finale di una inconsapevole trilogia della Morte, o di distaccamento dalla Vita, inasprisce i toni di un percorso che si era originato dallo squarcio tremendo di “La porta dello spavento supremo (il sogno)”, frattura in cui si è incuneato poi “Il vuoto”. In “Apriti sesamo”, forse uno delle sue opere musicalmente più insipide (un sound asciutto, con una strumentazione rock ridotta all’osso che lascia spazio ai movimenti scarni di un ensemble da camera), e dai testi meno ermetici e più espliciti (diciamo banali), la minaccia della morte è il vero fil rouge che collega i brani fra loro, esplicitando un’ossessione che non riesce a celarsi dietro alle consuete convinzioni esistenziali (che invece vedrebbero il nostro spirito, una volta completato il tragitto su questo mondo, abbandonare quell’impacciato involucro che è il corpo per proseguire altrove il proprio cammino).

Facile, no?, avere in tasca la consapevolezza che la Morte non sia la fine della nostra esistenza ed appropinquarsi saggiamente e serenamente verso il crepuscolo…ed invece no! Il fatto è che, per quanto si creda o ci si convinca che esista un qualcosa “dopo”, il trauma della Morte non può essere umanamente, emotivamente abbracciato, compreso, superato. Quella che segue è un'arida disamina che non fa altro che, elencando una serie di elementi/temi ricorrenti, forse banalizzando, sicuramente semplificando la complessità dell’universo di Battiato, dare voce ad una evidenza che probabilmente cozza con l’idea che l’autore vuol dare di sé.

La chiamava “La porta dello spavento supremo”, che – spiegava – deve necessariamente essere attraversata. E se da lontano questo varco lo si poteva guardare con un certo distacco, da una distanza ridotta fa sicuramente più impressione. E al Battiato di “Apriti Sesamo” (al quale auguro di campare mille anni ancora!), l’approssimarsi alla fatale soglia toglie il sorriso. Il suo sguardo, procedendo, si fa torvo, l’ironia lascia spazio al sarcasmo, la serenità ad una certa inquietudine, l’edotta ed aulica perifrasi alla frase semplice e didascalica: la Morte lo attrae e lo respinge al tempo stesso, ed è in questa dialettica che rimangono intrappolate le sue visioni.

Il ritornello della traccia d’apertura “Un irresistibile richiamo” recita: “Un suono di campane/ lontano, irresistibile, il richiamo/che invita alla preghiera del tramonto”: versi che ricordano il David Tibet dei Current 93 di "A Gothic Love Song” (“The bells of St. Mary call us to remember/ That life is with end”, ossia “Le campane di St. Mary ti chiamano per ricordarti/Che la vita ha una fine”). E’ la presenza della Fine che turba il quieto vivere del cantautore, un vivere continuamente sconquassato da segnali/presagi che indicano una imminente conclusione del tutto: presente e futuro sono piani che iniziano a sovrapporsi confondendosi a vicenda.

“Testamento” è un titolo che non lascia certo adito a dubbi e Battiato sembra parlarci come se già si trovasse nell’aldilà: “…e mi piaceva tutto della mia vita mortale/ anche l’odore che davano gli asparagi all’urina”, parole eloquenti che ci fanno già capire come chi le pronuncia abbia con la mente oltrepassato la linea di non-ritorno, e si guardi indietro con nostalgia, nonostante poco dopo aggiunga “noi non siamo mai morti, e non siamo mai nati”. Ma è comprensibile: a prescindere dalle proprie convinzioni, il trauma della Morte è insanabile per l’essere pensante. Non esiste credenza o filosofia che possa giustificare la nostra dipartita dalla vita terrena.

“Quand’ero giovane” rimarca il concetto. La terza traccia, sicuramente più riuscita della precedente, porta con sé toni più distesi (“Viva la gioventù, che fortunatamente passa/ senza troppi problemi/ vivere è un dono che ci ha dato il cielo”), seppur smorzati da una chiosa che nella sua semplicità si impone come una sentenza senza appello: “Andavamo a suonare nelle sale della Lombardia, e c’era/ un’atmosfera eccezionale, la domenica, di pomeriggio, in quelle/ balere, si divertivano a ballare, operai e cameriere./ Era passata un’altra settimana”. In quest’ultima riga, fra l’altro recitata con un beffardo abbassamento di tonalità, si condensa tutta l’amarezza e lo struggimento nel constatare che la vita è inesorabilmente schiava del trascorrere del tempo: aiuta il drumming metronomico di Gavin Harrison (già batterista di Portupine Tree e King Crimson, abituato dunque a ben altre partiture) che con il suo incedere incessante ed ostinato scandisce l’impietoso e sordo scorrere dei giorni.

Le prime parole di “Eri con me” non recano conforto: “Siamo detriti, relitti umani, trascinati da un fiume in piena, che non conosce soste né destinazione”. Se il brano non è direttamente ricollegabile al tema della Morte, di certo non è lusinghiero verso la vita e la pochezza/insensatezza delle esistenze umane che la attraversano.

E “Passacaglia”, persino singolo (!!!), rincara la dose: “Ah, come t’inganni se pensi che gli anni/ non hann’ da finire è breve il gioire”. L’andamento allegrotto del brano è ingannevole e cozza con frasi che ci stupiamo di ritrovare in un album di musica leggera (“Viviamo in un mondo orribile” oppure “Vorrei tornare indietro nella mia casa d’origine/ dove vivevo prima di arrivare qui sulla Terra”).

Ed eccoci al capolavoro, la già citata “La polvere del branco”, dove l’ossessione della Morte, che permea l’intero album, si sublima nei bellissimi versi che abbiamo visto poco sopra. “Ci crediamo liberi, ma siamo prigionieri, di casi invadenti che ci abitano e ci rendono impotenti” e ancora “Ci crediamo liberi, ma siamo schiavi, milioni di milioni di ombre sperdute”: un’immagine suggestiva, ma anche agghiacciante, quella evocata dal cantautore, che pare affetto da bipolarismo. Prima, infatti, guarda con nostalgia alla vita, rimpiangendo persino il puzzo di piscio, adesso, invece, pare persino desiderare la fine della stessa e quasi evoca il conforto che potrebbero arrecargli le seducenti spire della Morte.

Con questo brano si raggiunge il climax dell’opera, che, lo ricordiamo, era scaturita dal “richiamo” del Sacro, e che, riflessione dopo riflessione, ha condotto all’enunciazione di un destino ineluttabile. I brani rimanenti, rischiarati da questa consapevolezza, consolideranno la visione modellata da Battiato, continuando a picchiare sui temi della a) ricerca quale unico modo di elevazione individuale (“Caliti Junku”), della b) celebrazione della mente (lo strumento che, in “Aurora”, viene descritto come “qualcosa di stupefacente, un tesoro/ che soddisfa il desiderio, uno scrigno/ di ogni possibile cosa”) e della c) contrapposizione del mondo dello spirito al corruttibile mondo materiale (rappresentato dal vil denaro in “Il serpente”).

Due parole, infine, sulla traccia conclusiva “Apriti sesamo”, scollegata da tutto il resto e relegata allo status di bonus-track (ma dove mai si è vista una bonus-track che dà il titolo all’album e che non c’incastra una mazza con esso?!?). Strano anche il fatto che, un’opera che batte ripetutamente sui temi del distaccamento dalla vita, si ammanti di un titolo rassicurante capace di incarnare quell’immaginario fantastico ed esotico tanto caro all’artista quanto ai suoi fan. In questa scelta, probabilmente, vi sarà stato lo zampino dei discografici, che non sono degli stupidi (con la Morte, del resto, si vende poco...). Ma Battiato, che nemmeno lui è uno stupido, ha finto solamente di accontentarli, mascherando dietro al paravento delle gesta di Alì Babà e i quaranta ladroni la sua insopprimibile ossessione.

Osserviamo infatti come il Nostro decide di approcciarsi alla celebre fiaba. Egli prima allestisce una cornice in cui introduce la fanciulla Sherazade, la narratrice della storia; in seguito ci fa addentrare nelle vicende della storia stessa, ma al momento di massima tensione (“Quando i ladri di allontanarono al galoppo, ed erano lontani, Alì Babà si fece coraggio e palpitava il suo cuore come mille cavalli, impaurito e tremante ripeté la formula magica: Sesamo Apriti. La roccia girò su se stessa e come porta si spalancò”), al momento di massima tensione, si diceva, la narrazione viene troncata bruscamente: “A quel punto, sorto il giorno, Sherazade si interruppe e la fiaba finì”.

Chi conosce “Le mille e una notte” sa bene che l’escamotage della brusca interruzione è centrale nello svolgimento del piano narrativo: un re persiano, adirato nei confronti dell’universo femminile (era stato tradito da una sua moglie), decide di attuare la sua perversa vendetta consumando un rapporto sessuale con una nuova moglie ogni notte, per poi farla giustiziare al sorgere del giorno. La bella Sherazade, introdottasi nella corte del re con il fine di arrestare la strage, si fa abile narratrice di suggestivi racconti che verranno da lei stessa volutamente interrotti sul più bello, per poi essere ripresi la notte successiva: grazie al questo stratagemma, la fanciulla non solo riuscirà a salvarsi dalla furia omicida del re, ma riuscirà, notte dopo notte, a far innamorare di sé il sovrano, con il quale infine convolerà a nozze.

Al pari, Battiato, interrompendo bruscamente la sua narrazione, spera che essa si protragga all’infinito. Ma prima, ahimè, bisognerà per forza attraversare la porta dello spavento supremo…


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