L’unico grande problema della comunicazione è l’illusione che abbia avuto luogo.

George Bernard Shaw

Mi sapreste dire quante volte nella vostra vita DeBaseriana avete detto o vi siete sentiti dire una delle seguenti affermazioni?: “Non hai capito un cazzo!”; “Non intendevo dire quello”; “Guarda, forse non mi sono spiegato”; “Mi hai frainteso”; “Ma vaffanculo, ma lo capisci l’italiano!?”.

Non è facile esprimere chi siamo, cosa sogniamo, dove vorremmo andare; non è facile a quattr’occhi, figuriamoci quando battiamo i tasti di un computer per cercare di restituire le emozioni dateci dall’ultimo disco di uno sconosciuto indù che crea mirabilie sonore campionando i suoni di un serpente a sonagli.

Ho detto che non è facile? Bisognerebbe dire che è impossibile. La comunicazione umana è, di per sé, un miraggio; il trasmittente crede di mandare il messaggio forte e chiaro ed il ricevente non ha dubbio alcuno sulle sue capacità di comprensione. Ma tra gli esseri umani c’è un abisso incolmabile, invalicabile; possiamo fare del nostro meglio per metterci nei panni dell’altro, ma quello che passa è (nella migliore delle ipotesi) una copia “sporcata” della comunicazione originale. Ed è sporcata dal nostro bagaglio culturale, dalle nostre aspettative, persino dal valore e dal significato che una singola parola può avere per ognuno di noi.

Questo credo sia il nocciolo de “Il Messaggio dell’Imperatore”, brevissima parabola (non più di una paginetta) scritta nel 1917. Nel racconto Kafka si rivolge direttamente al lettore informandolo che il magnifico monarca, ormai morente, ha trasmesso un segreto ed importantissimo dispaccio ad un messaggero di straordinaria abilità; e che quel messaggio è diretto proprio al lettore, al singolo lettore e a nessun altro!

Le peripezie che deve affrontare il messaggero però, non solo sono ardue, ma sono perpetue, insormontabili; nonostante dia fondo a tutte le sue forze, rimarrà sempre invischiato nell’impotenza della sua forma umana.

Credo che Kafka abbia il dono di Beckett.

Il genio irlandese, lavorò incessantemente a drammaturgie sempre più spoglie e minimali, dove persino alle figure umane venivano tolti i connotati ritenuti inessenziali (in “Non Io” per esempio, sulla scena era illuminata solamente una bocca che raccontava la sua tremenda storia). Come i dramaticules (atti unici di brevissime pièce teatrali), riuscivano a trasmettere, con immagini potentissime e concentrate come un raggio laser, tutta l’angoscia disperante della condizione umana, le effimere parabole di Kafka (come non citare “Davanti alla Legge”) arrivano dritte al punto, con allegorie folgoranti ed intuizioni paradigmatiche.

Noi non ci daremo mai pace, ma quel messaggio purtroppo lo potremo solo immaginare e qualsiasi cosa ci leggeremo, sarà frutto esclusivamente delle nostre illusioni. La chiusa del racconto è proverbiale: “Tu però siedi affacciato alla tua finestra, e al messaggio dai vita nei tuoi sogni, sul far della sera”.

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