Mi vedo bambino. La sala è piena anche se la gente non si vede. Entra Tom, pianista di un certo spessore, con una certa sicurezza, aria un po' sorniona ed un pizzico di albagia se vogliamo. L'applauso è di rigore, caloroso, sentito. Ovvio direi. Con un movimento leggiadro che non gli attribuiresti mai si libera in maniera effimera del terminale a coda di rondine della giacca. Quando appoggia le dita guantate sulla tastiera non c'è fremito che lo interrompa.

I martelletti picchiano sulle corde diffondendo un motivo assolutamente splendido. Tutto procede regolarmente fino a quando, troppo presto forse, un gruppo di martelletti incolpevoli non scoprono con una subitanea quanto brusca scarica di sussulti, Jerry, che non aveva altri posti su cui piazzare il proprio giaciglio temporaneo. Parte la guerra del gatto con il topo a colpi di situazioni davvero esilaranti, ma c'è qualcosa che mi lascia una traccia importante nell'animo. Quel motivo. A seguito di consultazione con il mio generatore scopro che si tratta della Rapsodia Ungherese n. 2 di tale Franz Liszt. Ungherese anche lui.

Faccio scorrere attentamente l'indice destro sulla sterminata discoteca paterna e ne scopro una versione interpretata da Michele Campanella, sontuoso pianista napoletano. Paisà, ti ascolto.

Decisamente più lunga di quella ascoltata nel cartone animato, mi lascio rapire dall'incipit, secco, sicuro, ben scandito. Il motivo si insinua in una calotta sonora piuttosto cupa che si alterna però a latenti picchi rigogliosi, presto abbattuti dall'atmosfera prevalente nella prima sezione del brano. Minuscole formichine scappano verso un nascondiglio sicuro, scrutano la situazione, giudicano bassi rischi di pericolo e rispuntano anche saltellando. Il motivo si rallegra, cresce di intensità, la cupezza si dissolve contestualmente all'alimentarsi della briosità in rapido crescendo quando nei pressi della seconda metà del quinto minuto, una martellata vera e propria, non spazza via ogni suono annebbiato con una sfarzosa frase festante di rara bellezza. Devo riconoscere che tra le tante versioni ascoltate, per puro caso, quella di Campanella mi appare come la migliore. Cupa, profonda, snervante nella prima parte, energica, travolgente, gioiosa nella seconda. La famosa "martellata", con mio malincuore e da pianisti di notevole eccellenza come Vladimir Horowitz, Roberto Szidon o Jung Lin, viene spesso ammorbidita o mescolata come conseguenza logica al brioso crescendo. Campanella no. Lui spezza, quasi a sorpresa, divide con maestria il brano in due tronconi assicurando un effetto stupefacente. Ascoltare per credere.

Il secondo brano, a mio avviso, deve essere eseguito necessariamente da una donna. La versione di Martha Argerich non ha eguali in poesia ed enfasi. Bella donna tra l'altro. Liebestraum n. 3 è un velo tattile che si adagia sul marmo. Una farfalla che danza su un limpidissimo specchio d'acqua. Senti volteggiarla nella bonaccia di un lago inesistente, tra effluvi freschi di flora incontaminata.

Sembra che la farfalla abbia voglia di toccare l'acqua, pur conoscendo i rischi a cui andrebbe incontro. L'acqua è fredda e ad ogni saltello si ritira verso il cielo. Ha bisogno di trovare un punto più accogliente. In alcuni momenti le ali battono con una certa veemenza, in altri sembra di sentirla passeggiare pur non avendone la capacità. Intorno al secondo minuto la farfalla si spazientisce e si immerge completamente in quel meraviglioso specchio tanto agognato. Le ali si sono appesantite ma non fa nulla. Una struggente sferzata al vento per liberarsi dell'acqua in migliaia di goccioline. Come in un miracolo le ali sono intatte e la magia del suono le permette di volare ancora.

Le mani della Argerich la avvolgono in un dolce calore e la conducono sulla riva. In un rassicurante silenzio il brano si dissolve lasciando una scia nel cuore più potente di qualunque marchio.

L'invito all'ascolto di questi due brani valgono per conoscere Liszt. E per innamorarsene.

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