Dopo "Out to Lunch" e "Speak no Evil", ma prima di "Headhunters" e "Spectrum" si piazza "Red Clay", lo stesso anno di "Bitches Brew". Sì, nel 1970. Per Freddie Hubbard è, come del resto per il jazz in generale, tempo di cambiare. Dopo aver lasciato il segno come uno dei migliori trombettisti hard bop del suo tempo, i suoni elettrici e il soul-funk iniziano a diluire le sue composizioni, tirando fuori un'opera di gran classe, a mio parere tra le migliori di allora.

Non si parla di un fulmine a ciel sereno che solo il signor Miles seppe sfoderare, e nemmeno un lavoro musicalmente "sviluppato" in confronto a ciò che il destino settantiano del genere sfoderò di lì a poco. Sia però chiaro: non si intraprendono viaggi al limite della psichedelia come in "Bitches Brew" nelle sue incursioni elettriche e nemmeno orge di jazz-funk come in "Headhunters". I brani stanno in mezzo alla rivoluzione. E' però una versione abbastanza silenziosa della rivoluzione quella qui proposta, rimanendo musicalmente ancorato al passato senza eccedere, come altri, nella sperimentazione. Resta l'imprevedibilità del jazz classico, che però ora gode di un'impalcatura fatta di ritmiche incalzanti, da loop incessanti di batteria-basso (elettrico) e assoli di piano (anch'esso elettrico) suonati da un Hancock che non ci penserà due volte a riproporre musica di chiara ispirazione-red-clay un paio di anni dopo.

Chi suona? A parte Hubbard e il già citato Hancock, quà trovate anche Ron Carter, Lenny White (ingaggiato lo stesso anno da Davis), Joe Henderson e a servire nei live Billy Cobham.

Un disco storicamente importante, e di gran bella musica che chi ama il jazz sicuramente già conosce.

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