Non scopriamo nulla di che se affermiamo che il cinema orientale in questi ultimi anni ha dato filo da torcere e, spesso, superato la produzione patinata e poco ispirata delle majors europee e statunitensi. Un cinema fresco, non convenzionale e che ha ancora molto da dire. L'ondata gialla ha investito tutti i generi, tra cui anche l'horror.

"Three... Extremes" è un piccolo compendio di horror made in asia, in cui fanno capolino tutte quelle nefandezze che colpiscono lo spettatore direttamente allo stomaco, lasciandolo intorpidito dopo la visione.

E' diviso in tre parti, due delle quali dirette da due già grandi cineasti, affermati anche livello internazionale, quali Park Chan-wook e Takashi Miike, mentre il terzo è del cinese Fruit Chan, alla sua prima prova horror, regista non molto conosciuto dalle nostre parti, ma che non sfigura di certo al cospetto degli altri due.

La trilogia si apre proprio con la prova di Fruit Chan, intitolata "Dumplings", in cui viene affrontata l'annosa questione che, un tempo, era tutta femminile, ma che attualmente investe anche parecchi uomini, dell'invecchiamento e dei modi in cui limitarne il processo. Quante volte abbiamo sentito parlare nella letteratura e nel cinema di sedicenti maghi con i loro elisir di giovinezza? Bene, in "Dumplings", la ricetta per ottenere la bellezza eterna è alquanto particolare ed è basata su un ingrediente fondamentale. L'overture di "Three...Extremes" è quanto di più disgustoso, disturbante e spietato si possa pensare e Fruit Chan dimostra di avere tutte le carte in regola per dire la sua anche in un genere (quello horror dalle caratteristiche tipicamente orientali) in cui non si era mai cimentato prima.

Non ancora superato ed assimilato lo shock causato da "Dumplings" in cui, in modo particolare, alcuni rumori sono così rivoltanti che se ne consiglia la visione rigorosamente a stomaco vuoto (avete presente quella sensazione non troppo piacevole che si ha all'ascolto di quel suono stridulo che fa un oggetto appuntito quando lo si strofina su una lavagna?) che ci si imbatte nella visione di "Cut", di Park Chan-wook. L'impatto sembra morbido e rassicurante, ma già dopo le prime sequenze si viene scaraventati senza preavviso nei meandri della violenza e della follia umana. Il tema principale è molto caro al maestro coreano, ossia la vendetta.

"Cut" scivola via tra il non sense delle azioni del protagonista principale mosso, appunto, da vendetta verso la sua preda, la cui unica colpa è quella di essere troppo buono e compassionevole verso gli altri, il quale, in maniera molto curata e con dovizia di particolari, ha ricreato una scena di un film per far sì che il suo prigioniero possa convertire la sua bontà in odio e brutalità. La follia è accentuata dall'humor molto forte che pervade "Cut" che enfatizza il sadismo efferato che caratterizza il secondo capitolo di "Three...Extremes".

Non c'è tempo per leccarsi le ferite provocate da "Cut" che si passa al conclusivo "Box", di Takashi Miike. "Box" è senza dubbio il meno diretto dei tre e mira più al cervello che allo stomaco, ma, proprio per questo, è anche il più inquietante. Le molte scene sfocate a rappresentare il passato, disorientano continuamente lo spettatore sino a quando egli crede di aver raggiunto la soluzione dell'enigma finale. Ma proprio mentre è lì per coglierlo, Takashi Miike, come spesso accade nei suoi films, con un colpo di genio mette tutto in discussione e ci spiazza definitivamente lasciandoci, senza alcuna certezza, da soli con i nostri incubi.

Non ci poteva essere conclusione migliore per "Three...Extremes".

Dopo essere stati fortemente nauseati ("Dumplings") e progressivamente riempiti di rabbia ("Cut"), siamo definitivamente tramortiti e lasciati soli con le nostre paure ed incertezze ("Box").

Insomma, un film consigliato a coloro che ancora non conoscono di quali aberrazioni è capace il cinema asiatico.

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