Dei “miei” '70 ricordo molto poco.

Qualcosa dei miei genitori ancora giovani, più giovani di quanto sia io, qui ed ora: mio padre che di tanto in tanto viaggiava per lavoro ed ogni volta che tornava mi portava in regalo una macchinina; mia madre che tornava dal lavoro e una volta a settimana mi portava cinque bustine delle figurine dei calciatori; le domeniche passate al museo e, quando il tempo lo permetteva, alle colonne di Metaponto, sempre coi calzoni corti al ginocchio, pure d'inverno; gli altri giorni, i pomeriggi a giocare sul prato dietro al palazzo e in una palestra per modo di dire.

Di quello che accadeva intorno ricordo pure meno.

Quando ritrovarono il cadavere di Aldo Moro; la foto di un tizio col passamontagna, in mezzo alla strada, colle ginocchia un po' piegate, le braccia tese, una pistola in mano, nell'atto di sparare, ma forse non erano i '70.

Di musica, qualcosa.

Che avevo quasi tutti gli album dei Pooh, che piacevano tantissimo pure a mia madre, e a furia di sentirli «Alessandra» lo impiastricciammo tutto di ditate, e mia madre provò a pulirlo passando il Cif sul vinile, non funzionò e toccò ricomprarlo nuovo.

Poi ho imparato che c'erano i cantautori. Però non mi hanno appassionato mai e, pur avendo portato a casa i testi sacri del genere – De Gregori, Guccini, Lolli, Venditti ed il resto – li ho ascoltati e li ascolto meno di mai: troppo pesanti per come sono fatto, musicalmente e concettualmente, e ancora oggi, se mi capita di ascoltare qualcosa del genere, immancabilmente mi trovo a concludere quant'è invecchiata male e che, forse, era vecchia già quarant'anni fa.

Quarant'anni fa, quando esordivano i Clash, per dire.

Possibile che la pensassero così pure Marino e Sandro Severini che in quegli anni si misero in viaggio per Londra e riportarono a casa la passione e l'ispirazione per dare vita alla più bella storia di musica cui mi sia stato dato di assistere in Italia, The Gang prima, semplicemente Gang poi e finora.

Dopo gli anni spesi ad emulare splendidamente i Clash – «Tribe's Union», «Barricada Rumble Beat» e «Reds» – arriva la svolta e l'avvicinamento ai nostrani canoni folcloristici, magnificamente rappresentati e rivisitati in «Le radici e le ali» e «Storie d'Italia» soprattutto, fino agli ultimi due album dove invece, complice la collaborazione con il musicista e produttore Jono Manson, i suoni virano in modo deciso verso l'Americana, da The Band fino a John Mellencamp.

«Calibro 77» per me è solo questo: la rivisitazione proprio in chiave Americana, affettuosa, appassionata e divertita, di musica invecchiata terribilmente male o forse nata già vecchia, da Lolli a Guccini, passando per De Gregori e De Andrè, i terrificanti Della Mea e Pietrangeli, ma anche chi aveva capito che la storia guardava altrove, come Finardi, Gianco, Bennato e Gaber.

Ecco, Gaber.

«Calibro 77» si chiude con una rivisitazione di «I reduci» che mi mette i brividi per quanto è bella e qualcosa vuole pur dire.

Che, magari, per qualcuno ci vogliono quarant'anni, per qualcun altro ce ne vogliono una decina, ma poi arriva sempre il momento di chiudere i cerchi.

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