Se Jeff Buckley non fosse mai nato, un qualsiasi scrittore di talento visionario avrebbe dovuto inventarlo in un romanzo. Se Jeff Buckley non fosse mai nato, un qualsiasi regista underground avrebbe dovuto usare tutta la sua immaginazione romantica per trasfigurare nella finzione una leggenda mai esistita. Se egli non fosse mai nato, la mia anima sarebbe ora più povera, ed io non avrei mai conosciuto il sapore dell'amore, materializzato nelle mani di colei che me lo pose per la prima volta - oh mirabile coincidenza che mi cambiò la vita - colei che ora pone altri gioielli tra le mani non mie.
"Conosci Jeff?"
"No. Non credo. Chi è?"
"Sai.. ti piacerebbe.. i tuoi occhi tristi non mentono".
Oh, ben altre gioie mi portarono in dono quelle mani, ma la prima gioia fu "Grace", e correva il 1997. E il mio cuore mi parlò di lei. Ed entrambi non mentirono, quasi tutto avvenne: io m'innamorai di lei e adorai ciò che mi porse quel giorno. Ma su qualcosa mentì: i miei occhi non hanno mai smesso d'esser tristi, e forse è il destino. D'altronde i ricordi, siano essi dolci, siano essi amari, fanno sempre soffrire.
Ora, mi capita tra le mani - ahimè - l'ultima uscita di madre Guibert, e s'intitola "Songs To No One" e sulla cover Jeff si divide con Gary Lucas, più che rispettabile musicista, chitarrista fine ed eccentrico in una delle svariate incarnazioni della band di Captain Beefheart e in più fontman dei Gods and Monster, gruppo art-rock di cui avevo sentito un gran bene, tra le cui fila erano annoverati personaggi del calibro di Matthew Sweet e loschi figuri provenienti da altrettante losche e squilibrate liste (Swans, Modern lovers).
Ahimè temevo di dover fronteggiare anche questo fardello; più volte m'era capitato di incrociarlo e più volte il cuore era sobbalzato, ma io ho sempre odiato le opere postume, crudeli apocrifi su tombe che chiedono null'altro che riposo, patetici tentativi di tenere in vita un fuoco spento da tempo, apologia fuori tempo massimo della memoria.
Ma l'ho ascoltato, e lo temevo. I fans potranno qui trovare suggestioni amare e meravigliose in una versione di "Mojo Pin" registrata al Knitting factory di New York, quando ancora Jeff era un imberbe artista lontano dalla fama; due versioni di "Grace" - la prima un demo vicino all'originale - ma arricchita da un'armonica poi abbandonata nelle sedute dell'album che verrà; una "Hymne a l'Amour" di mastodontiche proporzioni, eterea e sulfurea; una "Satisfied Mind" che poi vedrà la luce nel disco postumo. Una "Malign Fiesta" d'urto, colle sue chitarre in primo piano e la melodia sopraffina; una "How Long Will It Take" dolcissima e languida, profluvio di note in cascata prima della pioggia, e la voce - e che voce! - a tessere granelli di lacrime.
Ora, io non so cosa ci potrà trovare d'interessante in questo lavoro il fan ordinario. Io ho pianto, ed era proprio questo ciò che volevo dirvi. Ma questa è una sensazione proprio mia, e purtroppo che posso farci se tutti i respiri di questo ragazzo sono oro che luccica per le mie membra mai sazie? Insomma, io sarei proprio di parte, e non so che fare. Adoro le stelle cadenti, che si chiamino Nick Drake o che si chiamino Syd Barrett. Quelle che salgono, salgono e poi scoppiano in mille coriandoli colorati, che spetta a noi raccogliere.
Jeff Buckley è stato l'ultimo dei romantici: figlio di un musicista di enorme talento morto per overdose; emerso dal sottobosco dopo una performance strepitosa ad un concerto-tributo al padre; un pugno di canzoni di bellezza lacerante; una morte inspiegabile, nel fiore della giovinezza e della speranza, quando il tempo impietoso segnava la fine del mito.
Ecco, sono questo genere di persone che rendono il mio cuore, se non felice, almeno vivo. Questo genere di persone, come lui, che mi culla nei ricordi, e come lei, che fa parte dei ricordi.
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