A tre anni da "No Other" Gene Clark rispuntò timidamente fuori. A ben guardarlo, sembra essere uscito da un carcere d'isolamento, ed in fin dei conti sappiamo che, per combattere l'instabilità emotiva e la dipendenza che lo distrussero, la sua vita è stata un po' un continuo tirarsi indietro, appartarsi, isolarsi. Certo, ricontestualizzando quel suo primo piano a retro dell'album, possiamo notare che quello era in fin dei conti il look del  tempo (siamo nel 1977), ma guardarlo sorridere dietro a quella barbona... Vedere quel suo dolcevita grigio che manco Tremonti, sotto ad una giacca rossa fuoco a quadri... Si, quadri, come quelli delle camicie dei boscaioli, solo che invece d'essere una camicia è proprio una giacca, ed anche di tessuto bello spesso!

Quella, ad una occhiata, parrebbe essere la quotidianità per Gene. Decisamente, azzardo io, uno dei suoi punti  più bassi. Ed anche questo "Two Sides To Every Story" segue fedelmente il trend. Questo è forse il disco più sfortunato, persino più dei predecessori. Attualmente fuori commercio per l'ennesima volta, quel che più conta è che sia il più sciatto, prevedibile e brutto dei dischi da egli dato alla luce fino ad allora, e non basta presentare nella tracklist il traditional appalachiano "In The Pines", reso celebre alle masse giovanili dai Nirvana, per aumentarne l'appeal. Né tantomeno giova sapere che a questo lavoro ci suonino Doug Dillard ed il violinista Byron Berline, la grande Emmylou Harris ed Al Perkins, probabilmente il più grande suonatore di dobro.

"Two Sides To Every Story" è prevalentemente un disco caruccio ma niente di sorprendente, costituito in maggioranza da ballate fin troppo sdolcinate e prevedibili. La verve del mid tempo di matrice country di "Kansas City Southern", dell'iniziale bluegrass "Home Rum King", col solito Dillard in evidenza, e la versione contry-rockblues del classico "Mary Lou" non riescono a spezzare il fiato ad un disco semplicemente troppo languido, persino per l'angelico Eugenio.

Così allungate le note di "Lonely Saturday" o di "Silent Crusade" che  rischiano di venire a noia: niente guizzi, niente sorprese, ed il sentimentalismo di brani come "Give My Love To Marie" (cover) ed "Hear The Wind" arriva allo stucchevole. "Past Address" sì che è invece una vera, perfetta, Clark's song: l'intensità ed il pathos salgono col tempo, ed il violino di Berline è magico. E "Sister Moon", invece, è il grazie al cielo immancabile saggio di architettura musicale griffato Gene Clark. Il ché raddolcisce non poco la sbobba.

Forse questo lavoro merita di essere ascoltato più volte delle pur non poche mie, forse non ho capito l'approccio dell'artista a questo disco, il disco di un uomo che semplicemente s'era appartato ed aveva pressoché fatto sparire le tracce di sé. Io, per quel che ne ho capito, credo che il buon Gene  fu, a quel tempo, anche un po' troppo rilassato, ed ecco a noi tutti la versione annacquata dei propri standards artistici. Musica diluita, rabbonita, addomesticata, placata nell'animo, e meno ispirata. Come il suo autore?

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