Non voglio entrare nella questione dei proventi di questo grande concerto-evento tenutosi nel 1971 al Madison Square Garden di New York e organizzato da George Harrison per dare un aiuto alle popolazioni del Bangla Desh afflitte da una terribile carestia, si sa bene che in questi casi dove le intenzioni sono assolutamente lodevoli c’è da fare i conti con gente disonesta che ci specula sopra. Pare che non tutto sia andato liscio nemmeno al Live Aid dell’85.
Comunque voglio soffermarmi sulla parte musicale di questo grande happening. La prima parte di concerto era volta a tentare di fare conoscere la musica indiana a gente che allora ne era sicuramente affascinata, ma abbastanza a corto di idee sull’argomento. Sono stati Ravi Shankar e il suo gruppo a svolgere benissimo questa parte con una grande esibizione dove tutti i musicisti si sono prodotti in numeri di altissima scuola, anche se forse per un pubblico abituato a cose più occidentali poteva risultare un po’ noiosa. Poi è toccato al gran cerimoniere George a entrare in scena insieme a tutto lo stuolo di grandi nomi presenti, da Eric Clapton a Leon Russell (allora tastierista del suo gruppo), Billy Preston, Ringo Starr e Jim Keltner (i due batteristi della serata) più Jessie Ed Davies e un manipolo di coristi e coriste.
L’apertura del concerto rock è affidata a George Harrison, con alcuni brani tratti da quello che allora era il suo ultimo lavoro in studio, il bellissimo “All things must pass”. George poi tornerà alla ribalta di quando in quando, inframmezzando i numeri degli altri artisti. Tutti sono in buona forma, tranne Clapton, la cui presenza è stata in forse fino all’ultimo momento, in piena crisi da dipendenza da eroina. Ringo Starr ha cantato quello che resta a tutt’oggi come il suo unico hit-single da solista, cioè un buon pezzo dai toni rock-blues come “It Don’ t Come Easy” , buonissimi anche i numeri di Billy Preston, con un gran pezzo R&B lento che si chiamava “That’s The Way God Planned It”, e di Leon Russell (9 minuti di medley tra la stoniana “Jumpin’ Jack Flash” e “Youngblood”). George, che a dir la verità sembrava un po’ nervoso e non troppo a suo agio, ha poi cantato una bella versione di “While My Guitar Gently Wheeps” e una sentitissima e acustica “Here Comes The Sun”.
Poi è stato il momento di presentare un “grande amico di tutti noi, Mr. Bob Dylan”.
Da parecchio tempo non si presentava in pubblico (dal Festival dell’ Isola di Wight dell’anno prima), era in serata di buona vena e ha sciorinato una serie di classici della prima ora, completamente in solitario e acustico (“Hard Rain’s A-Gonna Fall”, “It Takes A Lot To Laugh’”, “Blowin’ In The Wind”, “Mr. Tambourine Man” e “Just Like A Woman”). Lo stesso George dirà poi delle perplessità espresse da Dylan durante le prove ("non lo posso fare, amico, non me la sento” ), tutte poi appianate e risolte. Harrison ha poi chiuso il concerto con “Something” e con il pezzo finale, che è stato giustamente il pezzo simbolo di tutta l’operazione, cioè la dolente “Bangla Desh”.
Un bel concerto, penalizzato in parte da un’acustica non impeccabile di cui ha poi risentito anche la qualità del suono del disco. Insomma, una operazione assolutamente sincera. Se poi qualcuno può aver cercato di approfittarne per loschi traffici, non è sicuramente colpa di Harrison.
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