I 'Get Set Go' nascono dalle ceneri dei "The Spriggans", band abbastanza sconosciuta, appartenente a quel movimento che ha sfornato i vari "Fatso Jetson", "Queens of the Stone Age" e "Brant Bjork and The Operators".

Formatisi nel 2002, iniziano a suonare nei locali di Los Angeles, prima di andare in studio a registrare il loro album d'esordio "So You've Ruined Your Life". Un disco che al primo ascolto potrebbe sembrare acerbo e noioso e ad un secondo ascolto pure. I GSG tentano di distinguersi dalle altre punk-rock band con un sound semplice e diretto dai riff puliti e dalla sezione ritimica impeccabile, senza però rinnegare una certa (ma molto vaga) complessità nella struttura e in alcuni passaggi armonici.
Il risultato è una sbiadita copia tra i Ramones e i Weezer. Si parte con un'energica ma non eccezionale "Twenty-one", che a tratti ricorda i "Foo Fighters". Nella prima parte si evidenzia già uno dei maggiori difetti dell'album: la ripetitività. Infatti il secondo pezzo stile Ramones "Jesus Christ Wore Leather", anche se uno dei migliori, risulta tuttavia calcare la stessa falsa riga di "Twenty-one". E così sarà per la terza track, per la quarta e via dicendo.

In questo modo le canzoni davvero interessanti (che comunque sono poche) continuano a perdersi nella gigantesca melma della monotonia. Le cose che rimangono impresse all'ascoltatore sono l'urlata "I Want You", la mediocre "Go To The Mattress" (plagio della nota hit "Superman" dei "Five For Fighting"), "Break Your Heart" degna dei peggiori Simple Plan, l'orecchiabilissima "She Goes Round" che ricorda vagamente i 'Me First and The Gimme Gimmes'.
Arrivato alla 13 track, più o meno quando il mio livello di sopportazione stava crollando, l'unico mio pensiero era: "Dai, tieni duro che ne mancano solo due!". E invece "What I Love About You" è il pezzo che non ti aspetti, una struggente ballad per chitarra e voce neanche tanto stupenda, ma che diventa per me come pioggia in un campo arso dalla calura. Un attimo di respiro necessario, inspiegabilmente relegato come chiusura (quando avrebbe fatto comodo inserirlo tra una sfuriata di chitarre e l'altra).

Ma il meglio deve ancora arrivare. Rimane soltanto la Bonus Track, "Wait". Una piccola perla di pop-malinconico, completamente discostante dal resto degli altri pezzi. "Wait" quindi riesce a salvare un album di certo non disastroso, ma terribilmente insipido. Insufficiente con riserva. Canzoni di cui vale la pena l'ascolto: "Wait", "Jesus Christ Wore Leather"

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