Tra le cose minori del mondo del jazz, se vogliamo dire "di culto" e comunque non abusate, o non sufficientemente usate, c'è senz'altro l'uso della chitarra come unico membro della sezione armonica. Di solito, ad esempio, il trio classico del jazz è formato da piano, basso e batteria. Il che pare essere, per molti motivi, ben più che naturale. Il piano è uno strumento favoloso, la cui versatilità infinita è pari soltanto alle sconfinate possibilità di esplorarne soluzioni, canti e armonie. Insomma: lo strumento completo per eccellenza. E batteria e basso completano in assoluto la sezione ritmica. Linee di basso e tamburi, tutto quel che serve per battere il piedino, per dare i binari al treno armonico.

Dunque, un disco che preveda la chitarra come unica armonia, sax (e ovviamente ancora chitarra) come solisti e basso come unica linea ritmico/armonica è di per sé interessante. Se poi a firmarlo sono due grandi "vecchi" del jazz italiano come Gianni Basso e Franco Cerri, beh, il risultato è quasi certo.

Gianni Basso lo conosciamo: il suo amore mai negato per Coleman Hawkins e soprattutto per Lester Young esce in quest'opera in tutta la sua bellezza e sincerità non ruffiana. Uno stile non clonante, ma che è un "atto d'amore" verso i grandi, antichi maestri.

Franco Cerri, che noi vecchi ricordiamo irrispettosamente come l'uomo in ammollo, ma che è, com'è sempre stato, solo un grandissimo chitarrista, da un po' di tempo in qua non sbaglia un colpo. Anche lui (e come potrebbe non essere?) ha debiti, su tutti Wes Montgomery. Ma questo, come detto, non conta, quando lo stile, come la cover stessa o l'interpretazione in senso lato, sono considerabili null'altro che atti d'amore verso gli originali. E in questo bel disco non ci si vergogna delle proprie ispirazioni, del grande passato che ciascun buon musicista si porta dentro, pur in questo piccolo Paese di frontiera, piccola colonia oggi sempre più senz'arte né parte.

Loro, Franco e Gianni, sono ex ragazzi cresciuti con l'America nel sangue, negli occhi e nelle orecchie. Sapendo che l'America è nostra come di tutti, e in certi campi l'America è forse, più che altro, una categoria dell'anima... E tutto scorre bene, fluido e piacevolissimo, in questo disco da trio "drumless & pianoless" che è tanto un ottimo ascolto quanto un piacevolissimo sottofondo.

Purtroppo, però, per ricordarci che siamo in Italia, patria globale del passo più lungo della gamba, nella terza traccia del disco ("Marmo Molle"), una bossa "jobiniana" composta (peraltro bene) da Cerri, Basso prende (più volte, quindi non è considerabile una svista) un acuto decisamente e fastidiosamente calante. Era una composizione di uno dei protagonisti, non uno standard. La cosa poteva essere facilmente evitata.

Ma purtroppo siamo in Italia, paese di geni a metà e capolavori mancati.

 

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