Era il dopoguerra. Il dopoguerra italiano.

Una grande cultura inflazionata e condizionata da un'altra grande cultura. La prima antica e quasi decadente, rinvigorita dalla fine di una dittatura e di una guerra, la seconda giovanissima, aggressiva. E soprattutto divertente.

Il jazz.

Durante il ventennio di jazz se ne masticava poco. Il duce pare l'apprezzasse, ma non lasciava che il proprio popolo lo ascoltasse più di tanto. Troppa libertà, troppa fantasia, evidentemente. Ma poi, segno che forse qualche nota bazzicava tra le mura dittatoriali, Benito il jazzista se l'è trovato in casa.

Dopo il ventennio, l'esplosione. E sembra di vederli questi ragazzi magri dagli occhi svegli, coi "patelloni" di vinile sotto il braccio, ad ascoltare insieme cose bellissime d'oltreoceano, da sognare a bocca aperta, e subito da imitare.

Tra questi l'uomo dal sax tenore soffiato. Gianni Basso il piemontese. Che adesso ha deciso d'andarsene a suonare in orchestre più alte, magari di fianco ai suoi idoli. Vicino al Duca, in sezione con Coleman o con Lester, i suoi idoli e modelli principali.

Come tutti i jazzisti storici italiani ha avuto piccoli difetti e grandissimi pregi.

L'unico vero difetto è, e lo è anche in questo bellissimo disco, un fraseggio che tradisce in maniera troppo evidente il profilo sassofonistico dei Maestri.

Sicuramente da giovane il piemontese Gianni ha masticato Coleman Hawkins e Lester Young da colazione a cena, traendone grandi benefici, infinita ispirazione e sapendo mescolare il tutto con un'innegabile sensibilità propria.

In questo disco, il disco col quale mi piace ricordarlo (insieme ad alcuni storici con Valdambrini, ben ri-pubblicati per gli appassionati), il nostro è in duo con un altro gigante della scena jazz italiana d'allora e di oggi: Renato Sellani, uomo e pianista d'eleganza assoluta.

Il fraseggio di entrambi riporta all'epoca d'oro del jazz, ma con un'attenzione melodico/armonica tutta nostrana: il loro modo di suonare è dolce, raffinato, colto e capace. Ha una prerogativa grandiosa, il lato luminoso e sempre più raro dell'italianità: la classe.

Ce n'è tantissima in questa musica che piace a uomini e donne. Che va bene per l'ascolto, per sottofondo per cucinare o rilassarsi (anche Davis dedicò opere alle due attività...) o, che bello poter usare locuzioni antiche, matusa, desuete, morte e bellissime, per fare la corte a una bella donna.

Ecco: il profilo campagnolo e colto di quest'uomo col sassofono ci mancherà molto.

Anche se sarà, come più sempre accade, un sentimento di nicchia. In pochi lo ricorderemo, probabilmente, ma con un affetto talmente grande che pareggerà, o meglio supererà di molto le trombe e tromboni che su tutti i media accoglierebbero la dipartita dell'ultimo dei cabarettisti televisivi.

Quel bellissimo soffiato, tecnico e sentito. Quel moscone mai fastidioso. Quel suono semplicemente "bello" esce dallo stereo, accompagnato dal migliore dei piani nostrani d'una volta (ed uno dei migliori in assoluto).

E l'unico peccato è che non sia un vinile.

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