C'è sempre una sottile emozione nel recensire un lavoro di Giorgio Gaber. E non è mai facile distinguere, in questi casi, sensazione e obiettività. Non sono frasi fatte: è la realtà. Così come molti conoscono solo il Gaber impegnato di inizio anni Settanta, pochi conoscono il Gaber scanzonato di metà anni Sessanta, quello che suonava nei cabaret milanesi e nei locali alla moda (il Santa Tecla, ormai un istituzione) e si divertiva insieme a Enzo Jannacci, amico fraterno, a canticchiare "Porta Romana" o "La ballata del Cerutti".
Nel 1970 s'inventa il personaggio del Signor G, e ne mette in scena, al Teatro Strehler di Milano, una sorta di Genesi Profana: il signor G è l'uomo della strada, un piccolissimo borghese che cerca di capirci qualcosa della società, degli uomini, della poltica, capace di autocriticarsi e interlocuire col pubblico a suon di battute e monologhi. Quello che, col tempo, verrà denominato il teatro-canzone. Questo Signor G procurerà non pochi problemi a Gaber e Luporini, il paroliere di tutti gli spettacoli teatrali gaberiani: a volte vanno sul sicuro, e dicono che bisogna "Far finta di essere sani", altre volte invece sostengono che "Anche per oggi non si vola". Quando però parlano di "Polli d'allevamento" si tirano addosso l'ira feroce dell'intero sistema politico sinistroide italiano e vengono etichettati come biechi qualunquisti. Certo è, che il punto più alto (e irrangiungibile anche per lo stesso Gaber) del Signor G è un solenne capolavoro del 1972, "Dialogo tra un impegnato e un non so".
Pezzi parlati, monologhi taglienti ed efficaci si concatenano con canzoni feroci e arrabbiate, vero e proprio attacco predeterminato allo Stato Italiano e al radicalismo puntuale di certa politica boriosa e gonfia di sè. I dialoghi tra Gaber, ovvero il Signor G, e un extraparlamentare di sinistra (lo stesso Gaber) aprono lo spettacolo in maniera del tutto sorprendente, la vera rivoluzione, secondo Gaber & Luporini, è riuscire a 'mangiarsi un idea'. Concetto essenziale, per capire cosa pensasse Gaber della politica: efficaci a questo proposito i piccoli esempi di idee conservatrici, il marito volutamente cornuto, l'antirazzista ovviamente razzista, e quell'ultima frase, capace di scuotere cinquant'anni di politica comunista, "Ho voluto andare, ad una manifestazione, i compagni la lotta di classe, tante cose belle, che ho nella testa ma non ancora nella pelle". Qualche intermezzo comico per stemperare il clima pesante, "Lo shampoo" è divertentissima, ma anche questa, a ben vedere, è cupa e triste. E poi c'è "L'ingranaggio", supportata dal monologo "Il pelo". Il pelo, nient'altro sarebbe che il denaro: l'uomo felice si dichiara tale quando non possiede nulla, ma l'invidia e la fame di successo, lo porta a fare di tutto (persino autocancellarsi) per poter avere almeno un pelo. E quando qualcuno afferma di averne dieci, lui deve averne dieci. E via così. La metafora è chiara e diretta, perchè "non è che non ne abbia voglia o non ne abbia il coraggio, è che ormai son dentro all'ingranaggio".
La stoccata alla sinistra italiana arriva poco dopo, e non è un caso: una foglia su un occhio, basterebbe spostarla, ma l'intellettuale di sinistra non ne ha la forza. E alla fine sbotta: "Vabbè, al limite perderò l'occhio". L'immobilismo sociale di tutta quella sinistra gonfia di orgoglio, capace solo a parole di difendere i più deboli, e poi, in pratica, capace solo ad autoammirarsi in un lucidissimo specchio, è l'invettiva più grande e più feroce che Gaber potesse cesellare. L'operaio che credeva in certi valori politici, ormai si ritrova spiazzato: dove sono i politicanti che ho votato? Eccoli lì dove sono, si fanno belli, moderni Narcisi, eppure non sono capaci nemmeno di spostarsi una foglia dall'occhio. E la sinistra, quella vera, quella che se ne sta in Parlamento, non solo ha deciso di ripudiare Gaber, ma, peggio, ha continuato a rimanere ferma ed immobile.Chiude il primo tempo dello spettacolo, l'inno più famoso e più celebrato di Gaber, "La libertà", e la libertà, badate bene, non è avere un opinione (altra stoccata alla sinistra), la libertà è partecipazione.
Il secondo tempo inizia ancora con un invettiva. Questa volta si parla di bende, o meglio, del fantomatico Paese di Bendopoli. Vista oscurata, pochissima percezione della realtà, nessuna autostima: vi dice qualcosa? Sì, la politica, ma forse qualcosina di più: l'oscurante rifiuto della società (e dunque degli uomini) di confrontarsi faccia a faccia con la realtà: meglio non vedere dove sono i problemi, le magagne, gli errori dell'uomo, no, meglio nascondersi dietro una benda e far finta che tutto vada bene. Mestissima "Il mestiere del padre", storia di una coppia di divorziati alle prese con una bambina da educare in un mondo cattivo e profondamente ingiusto, e fortissimo lo sdegno gaberiano nei confronti dei borghesi: "I borghesi sono tutti dei porci, più sono grandi e più sono lerci". Qui non si va per il sottile, qui si va dritti al cuore del problema, senza metafore o giri di parole. Intermezzo comico, questa volta è la memorabile "Oh Madonnina dei dolori" in cui Gaber, tra un frizzo e un lazzo, osa mettere in dubbio persino la paternità di Gesù (bisogna ricordare che siamo in pieni anni Settanta, a un passo dagli anni di piombo e dall'avvento di Papa Wojtyla al soglio pontificio, insomma, era di grandi e profondi cambiamenti). Esilarante il monologo dedicato a Nixon: Nixon viene rappresentato come un uomo che se ne sbatte di quello che succede intorno a lui. Va a letto e pensa alla pace ma si addormenta, a pranzo con la moglie pensa all'Italia, alla Germania e al Giappone ma alla fine è sazio e gonfio, va in bagno per espletare i propri bisogni fisiologici, pensa al Vietnam, agli Americani morti e pensa: "Che cagata!".
Lo sguardo di Gaber è ancora una volta lucidissimo, e avanti nel tempo di almeno quattro anni, gli anni cioè, che intercorrono tra questo brano e lo scandalo Watergate in cui venne implicato proprio il Presidente Americano Nixon. Chiude lo spettacolo la discutibile "Gli operai", discutibile perchè un pò pesante e cattivella nei confronti del mondo operaio, anche se il finale pare smentire accuse e critiche. Quando Gaber saluta come sottofondo si sente la musica de "La libertà", ma nulla è scivolato via, neanche i più piccoli dettagli, nemmeno i brani che volutamente ho escluso (ho scelto i più efficaci, e comunque quelli che più mi hanno colpito).
"Dialogo tra un impegnato e un non so" a distanza di quasi 35 anni non perde nemmeno un grammo della propria lucida cattiveria. Un miracolo, sì, questo è un miracolo.
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