Parlare di Gaber vuol dire parlare d’Italia ed Italiani e, per come la penso io, parlare di sé risulta sempre più difficile che sputare sentenze sul proprio prossimo. Non sempre infatti è facile spiegare la vasta gamma di psicosi collettive che colpisce periodicamente questa nazione. Dal temibile pulcino Pio fino allo spionaggio sistematico tramite i più svariati social networks. Pare che l’italiano medio senta da sempre il bisogno di nutrirsi ogni decennio di qualcosa di diverso, rigorosamente degradante e appagante allo stesso tempo. E' una sorta di spirale in cui ci si avvita per colpa della malefica routine quotidiana , nemico giurato di quell'impegno, quello sforzo che dovrebbe caratterizzare la vita e distinguerla dalla sopravvivenza.

A cavallo fra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 Giorgio Gaber, patriota anarchico, descriveva con cupa ironia questa ossimorica situazione, sfornando uno dei suoi lavori più raffinati sia a livello musicale che teatrale. Quello che fin da piccolo mi ha sempre affascinato del signor G è proprio questa sua capacità di fondere due arti complementari come teatro e musica in un modo così peculiare e accattivante, creando un ensamble tutt’altro che banale, senza mai sfociare nella pomposità o nell’autocelebrazione, ricorrendo anzi all'arma della sobrietà, che sebbene venga  molto spesso fatta coincidere con la povertà di contenuti, in una spirale di semplicismo talvolta imbarazzante, gioca un ruolo chiave nella riuscita o meno di un'opera.

Il “Dialogo tra un impegnato e un non so” affonda le sue radici nel bisogno di criticare qualsivoglia tipologia di conformismo politico, indipendentemente dal fatto che tenda da una parte piuttosto che dall’altra (tema molto caro a Gaber, che lo riprende in pezzi come "Destra-Sinistra" o "Qualcuno era comunista"), ridicolizzando la figura del comunistoide impegnato in una lotta di classe che mira più al riempire la propria pancia che quella degli altri.Il disco vive quindi a fasi alterne. Esso si sviluppa sotto forma di chiaroscuro , con la figura del “non so” a fare da contrappunto a tratti petulante, a tratti esilarante, al rigore di quello che viene definito “un extra parlamentare di sinistra”.

Da una parte i problemi sociali, che vengono mestamente ridicolizzati, sebbene non ne venga negata la presenza più nella testa delle persone che nelle loro reali quotidianità, e dall’altra un’attenta introspezione delle piccole cose: si passa con grande semplicità e furba leggerezza dal rapporto di coppia che si affievolisce al problema del “pelo”, fino ad arrivare ad un Nixon menefreghista (Watergate era alle porte, mi piace pensare ad un personaggio ante-litteram descritto da una sincretica Cassandra) passando per l’ingordigia dei borghesi. Un‘opera a tutto tondo, che non risulta essere manichea e parziale.

E’ il manifesto della vita di un personaggio come Gaber, uno per cui “la libertà non è star sopra un albero, non è neanche avere un’opinione, la libertà non è uno spazio libero. Libertà è partecipazione”.

Sperando che non diventi tutto un grande rospo da ingoiare.

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