Diversi mesi fa mi è capitato di parlare di musica con un marxista-leninista ultracinquantenne. A sentire lui la musica elettronica, con i suoi ritmi ossessivi e le sue melodie di facile presa, è stata creata apposta per rimbambire il giovane proletariato rivoluzionario degli anni '70 e distoglierlo dall'impegno delle lotte per rinchiuderlo in discoteca, veicolando il messaggio del capitalismo americano.
Evitando di rispondere a questa idiozia, mi sono subito immaginato le occupazioni, i cortei, gli scioperi, i servizi d'ordine, i lottarmatisti, tutti quanti dispersi o sconfitti alle soglie del nuovo decennio, non dalla ristrutturazione nelle fabbriche, che andava di pari passo con la repressione poliziesca, né tanto meno dalla piaga dell'eroina che ha fatto fuori così tanti baldi giovini, ma dal mio amato G-I-O-R-G-I-O, molto più simile nell'aspetto a Moretti delle BR, che a Gianni Agnelli.

E tutto perché negli stessi giorni di questa discussione usciva nei negozi il nuovo disco di Moroder, dopo 30 anni dall'ultima fatica. Avevo spulciato qualche articolo al riguardo, ma alla fine ho deciso di lasciar perdere l'album di un vecchio grande, tornato alla ribalta quasi solamente grazie alla collaborazione con un noto duo electro parigino.
Tuttavia mio fratello, conoscendo il peccato veniale della mia passione per la disco, che spesso e volentieri mi ha portato a provare, in privato, diverse piroette da febbre del sabato sera (tra cui il famigerato “Passo del Ginecologo”, effettuato a tende tiratissime), ha pensato bene di regalarmi Déjà Vu in versione deluxe, comprandolo addirittura a scatola chiusa!

Se la cover, sparaflesciando arcobaleni dai Carrera e dai baffoni di GiGi in argento metallizzato, è un vero e proprio tuffo nel passato, le note vi faranno presto capire che purtroppo non è tutto revival quel che luccica. Di fronte alla scaletta, dove spiccano collaborazioni di rilievo con Sia, KYLIE MINOGUE e BRITNEY SPEARS, ci si sente vicini al saggio Darius e la fiducia viene meno.
La musica, tamarra forte, fa il resto. Gli episodi più riusciti sono quelli in cui il nostro se ne sta per i cazzi suoi (due pezzi e mezzo, se escludiamo le valide bonus trackz) o in cui riesce ancora a sfoderare progressioni, chitarrine à la Nile Rodgers e archi tipici del suo periodo d'oro (vedi i brani con Sia, Foxes e Kelis). Ciò che rimane invece è un piegarsi a novanta verso un pop da classifica che non sfigurerebbe solamente nelle discoteche di Jesolo o, nel migliore di questi casi, su RTL 102.5.

Quindi, al contrario di quanto recita l'episodio più felice dell'intero album, i 74 (anni del nostro) non sono i nuovi 24. Allo stesso tempo è però difficile prendersela o storcere troppo il naso: lo spirito di una volta in diversi casi è ancora vivo e il pop, come l'elettronica, ha cambiato faccia, cuore e pubblico da Donna Summer alla Minogue e di questo non possiamo certo dare la colpa a Moroder, che in diverse e recenti interviste ha pure espresso sorpresa e rammarico su come i tempi siano cambiati, da quando lui faceva man bassa di Premi Oscar.
Infine a colpirmi positivamente è stata la sensazione che Giorgio si diverta ancora e non poco a fare musica per noi, aldilà dell'evidente operazione commerciale, e la cosa non può che farmi piacere.

Per concludere, se non volete perdere tempo a ricordare la differenza tra struttura e sovrastruttura a un vetero-maoista, potete seguire il ballo dell'ortodossia socialista oppure, dopo una buona dose di italo-disco, seguirmi sulle note dei Butthole Surfers, perché una cosa è certa: Il Baffo attira fika texana come il miele attira gli orsi.


PS: Flo, non me ne volere.



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