Glen Moore è conosciuto dai più come il contrabbassista degli Oregon, ma è sopratutto un musicista curioso e difficilmente classificabile, costantemente alla ricerca di nuove sonorità da estrarre dal suo importante strumento. Non vi nasconderò che ho acquistato questo CD (uscito nel 1994) attirato dal suo nome in copertina, e incuriosito da quello che avrebbe combinato il nostro al di fuori del suo contesto naturale.

Ebbene, ho scoperto un ensemble vivacissimo e originale, un trio paritetico formato oltre che dal citato Moore, dal poliedrico pianista Larry Karush e dal blasonato percussionista Glen Velez.

A dire il vero i tre avevano da tempo intrecciato le rispettive vicende artistiche, dal momento che Moore e Velez avevano suonato assieme nel Consort di Paul Winter, fucina e crocevia della contaminazione tra jazz, musica classica e suggestioni etniche.

Per quanto riguarda Larry Karush, forse il meno noto dei tre, è in realtà figura assai trasversale della musica: muovendosi tra jazz e contemporanea, ha collezionato un'impressionante numero di collaborazioni con musicisti di estrazione diversissima, spaziando da John Abercormbie a Steve Reich, solo per citarne alcuni. Artista attento alla realtà che lo circonda, ha favorito la nascita degli Oregon, ospitando il quartetto nel suo loft e mettendo loro a disposizione la sua sala di incisione nel lontano 1970.

"Afriqúe", dunque, e quindi sonorità africane, percussive, ancestrali. Certo, ma non solo...

L'iniziale "Sun Bone" vi strapperà un sorriso: un gioiellino nervoso e guizzante uscito dall'imprevedibile penna di Moore. Qui, come altrove nel disco, Karush esibisce un pianismo secco e percussivo, che può ricordare a volte un vibrafono o una marimba. Ma è anche capace di premere il pedale dell'emotività, come nel classico di John Abercrombie "Parable", dove un grappolo di accordi è solo una scusa per intessere divagazioni armoniche di disarmante bellezza.

I tamburi parlanti di Velez sono sempre in bella evidenza; nei brani più lunghi ed articolati viene invocata una piccola corte di percussionisti che riempie l'aria di suoni esotici: ecco "Africa 3/2", dall'andamento pigro e sognante, che ci trasporta a bordo di un barcone, su quei fiumi africani che scorrono lenti, enormi, maestosi, tra acque giallastre ed ippopotami. Tre bianchi che parlano di Africa, e ci riescono, senza sembrare scontati o retorici. Ascoltare per credere.

Nei brani di impronta maggiormente etnica si staglia nettamente l'ombra di Abdullah Ibrahim, ma durante il disco i tre intraprendono differenti e variegati percorsi: c'è spazio per il jazz più tradizionalmente inteso, con "Gloria's Step", nel quale Moore rende omaggio al suo dichiarato maestro Scott La Faro - nonché pilastro del jazz moderno, con il quale si deve confrontare ogni contrabbassista che si rispetti. Ci sono momenti più sperimentali, dove Moore, interfacciando il basso con un sofisticato sistema elettronico, tira fuori un arsenale di suoni lunari ed inquietanti, dando libero sfogo alla sua inusuale creatività. Il tutto condito con il consueto, sinistro senso dell'umorismo, come testimonia il titolo "Mr.Moore's Neighbourhood" (i vicini di casa di Mr.Moore).

Come già accennato, il Karush solista è sempre interessante, e anche il compositore non scherza. Il conclusivo "Country" illustra bene l'estetica del versatile pianista: Karush parte da una struttura ben definita, un tema essenzialmente Jarrettiano, per introdurre un linguaggio improvvisativo obliquo, al limite della stonatura, che non sarebbe dispiaciuto al primissimo Ornette Coleman...

Un punto di vista diverso: sul jazz, sulla musica tout court, sul modo di essere e considerarsi musicisti. Una consigliata, oltre che piacevolissima, ginnastica mentale.

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