Se dovessi sintetizzare la mia (finora breve) vita, in un condensato di cinque cd, fra i cinque figurerebbero senza il minimo dubbio quei geniacci dei Goblin. Un gruppo geniale, magmatico, imprescindibile, maestoso, terrificante: un gruppo, sempre sottovalutato, sempre bistrattato, sempre relegato ai confini della scena musicale. Un gruppo che ha trovato la sua consacrazione, in contemporanea con la sua relegazione, nelle colonne sonore: e, per questo motivo, è stato sempre etichettato come "gruppo da colonna sonora", quindi gruppo da poco conto, senza rilievo. Eppure, i gruppi senza rilievo non ti dovrebbero fare scorrere i brividi giù per la schiena. Oppure evocare atmosfere freudiane, analizzando la psiche dell'uomo in maniera cinica ed imparziale. O ancora, con appena due o tre accordi ripetuti per cinque minuti, ipnotizzarti, renderti succube, annientare qualsivoglia forma di resistenza. Davvero, un gruppo senza rilievo.

I Goblin nascono nel 1975, da un'idea di Massimo Morante (voce e chitarra elettrica) e Claudio Simonetti (tastiere), a cui si aggiungeranno poco dopo Fabio Pignatelli (basso) e Walter Martino (batteria). Il loro talento è veramente elevato: cominciano a far parlare di sè ben presto, e la loro fama comincia ad espandersi, a chiazza d'olio, tanto da stuzzicare la curiosità del maestro dell'horror italiano, Dario Argento. Dopo aver assistito ad una loro esibizione, il regista decide: saranno loro ad interpretare la colonna sonora del suo nuovo film. Detto, fatto. Mentre si girano gli ultimi ciak di "Profondo Rosso", il capolavoro indiscusso di Argento, la band si riunisce per provare i temi principali della pellicola. L'ultimo ritocco viene dato quando Simonetti decide di far reinterpretare, in versione progressive, alla propria band, alcuni brani del grandissimo jazzista Giorgio Gaslini, che non solo acconsente la rilettura, ma addirittura assiste alle prove dei quattro. E' tutto pronto: l'ultimo tocco, di pura classe, è stato aggiunto, ed il film è pronto per sbarcare nei cinema. Contemporaneamente, nei negozi di dischi esce "Profondo Rosso- The Complete Original Soundtrack Recording", il cd contenente tutte le colonne sonore dell'opera di Dario Argento.

Prima di cominciare a descrivere alcuni dei brani presenti (in totale ben ventotto, incluse alcune bonus track) faccio una breve premessa. Avverto i lettori che mi è impossibile, nonostante tutti gli sforzi di questo mondo, rimanere obiettivo di fronte a tanta magnificenza. Se siete fan della band, proseguite nella lettura: in caso contrario, mettetevi il cuore in pace e ritornate sulla homepage del sito, poichè non troverete la minima traccia di stroncatura. Grazie dell'attenzione.

Un'opera monumentale, un lavoro impressionante. La prima impressione che si ha, avendo di fronte l'artwork del disco in questione (il ritrovamento, da parte del pianista Marcus Daly, del cadavere orribilmente massacrato della medium Helga Ulmann) è quella scritta sopra. Ed in effetti, lo sforzo compiuto dai Goblin è decisamente notevole. La loro miscela di progressive, jazz e campionamenti elettronici risulta a volte davvero incredibile, originale e malleabile. Confrontando il film con la soundtrack, si nota come il gruppo abbia creato delle composizioni perfettamente combacianti con la nube di mistero ed omicidio che permea, stagnante ed ammorbante, per tutta la durata della pellicola. Sia che si tratti del diversivo malefico ed inquietante del burattino mobile, distrazione fatale in preparazione ad un efferato delitto: i sedici secondi d'apertura di "Mad Puppet's Laughs", composti esclusivamente dalle risatine create dalla diabolica marionetta, rizzano decisamente i peli sulla nuca. La nenia oppressiva e sanguinaria di "School At Night", una cantilena propiziatoria che apre le porte a nuovi omicidi, cela una cappa di oppressione e di sconvolgimento infantile creata apposta per turbare in modo permanente l'ascoltatore, ben cosciente del fardello gravoso nascosto dietro la carica di un normale, persino banale carillon. Nenia che viene rivisitata più volte all'interno dello stesso cd: oltre alla versione originale, sono presenti le versioni alternative, quella strumentale, quella interamente in celesta (un registro dell'organo) e quella in versione echo, oltre, naturalmente, alla primaria composizione di Giorgio Gaslini, un jazz contaminato da espedienti elettronici e da incursioni "nobili", come quelle di violino ed arpa. Il progressive nervoso, ossessivo, dai ritmi tribali di "Death Dies", più volte accompagnato da accenni di tastiera, si fa ascoltare e riascoltare infinite volte: l'attesa, la fretta, la smania di svelare il grande mistero, la tensione della scoperta, l'angoscia primordiale del buio, un buio lento, pigro, assassino, che si fa partecipe dell'apertura convulsa di sistole e diastole nei lunghi momenti di timore, timore della mancanza di un qualcosa che dovrebbe esserci, ma non c'è; una lunga ricerca, alla scoperta di segnali subliminali captati dall'inconscio, e ancora sconosciuti alla visione globale della mente. Oltre alla versione dell'album, si segnala la forma alternativa del film, divisa in tre parti. La chitarra strisciante, traditrice, ipnotica di "Mad Puppet", monotona eppure mai stancante, un radar alla ricerca dei come e dei perchè, un radar limitato, nel pieno rispetto delle più basilari facoltà umane, che cerca la soluzione alle tante domande che affiorano nella testa, e finisce col fermarsi dinnanzi all'idolo malvagio del burattino, un pretesto per distrarre l'attenzione di un uomo che ha capito e che non deve capire, un uomo che nulla può contro i riflessi robotici e la quasi onniscienza dell'antagonista.

C'è spazio anche per sprazzi di romanticismo, piccoli raggi di luce che perforano lievemente i nuvoloni carichi di tempesta della trama cinematografica. A chi dedicare questo pezzo, se non a lei, l'amata di Marcus, la giornalista Gianna Brezzi, con quella sua aria impertinente ma caparbia, furba eppure sveglia? Il pianoforte, la seconda pelle di Marcus e del suo amico Carlo, fa da sottofondo a questa composizione dai toni lievi, dominata in prevalenza da flauto e sax, strumenti che allentano il nodo creatosi nel petto dell'ascoltatore. Anche qui, viene registrata una seconda versione, quella propria del film. Le atmosfere oniriche di "Wild Session", un dolce canto in lontananza, come perso in una bruma nebbiosa mossa da un refolo gelido, spiana la strada ad una base progressive, che si snoda attraverso dedali di percezioni extrasensoriali e di rimasugli di contaminazioni. Ma, prima del grande finale, c'è ancora spazio per una "Deep Shadows", una tortura di sensazioni imperfette ed incomplete, con un vuoto retorico eppure sconvolgente nella sua grandezza, a tratti nevrastenico, a tratti acido, a tratti psicologicamente labile. Ancora una doppia versione: oltre a quella dell'album, quella del film, divisa in tre parti.

Ed infine. Lei. Il motore del film: la più classica delle colonne sonore, aldilà delle sponsorizzazioni per telefonini, non perde di potenza e grandezza nonostante trentuno anni d'età. Lei. "Profondo Rosso": un'analisi spietata della perversione umana, bisognosa di cure eccentriche, particolari, assetata di delitti, per placare quella sete malata scoppiata tempo prima, nel giorno di Natale di un anno maledetto, una sete che non si bloccava nel sentire una dolce musica, una sete che non si bloccava nell'incrociare il languido sguardo di un bambino rovinato per sempre, una sete fomentata da una rabbia interiore, stillante pazzia, il ritratto della psicologia disastrata di una povera donna, impotente di fonte al suo male, costretta dal suo male ad uccidere ed istigata, dopo anni di letargo, ad inscenare una nuova spirale di sangue, un incubo senza fine, senza spazio, senza tempo. Il fischio acutissimo, prolungato, inumano del pezzo è la miccia che dà il colpo di grazia alla ragionevolezza dell'ascoltatore: l'arpeggio ossessivo, che ritorna, riaffiora, e poi ritorna nuovamente, converge in una furiosa quanto doverosa chiusura in organo. Un organo simboleggiante la punizione inflitta da Marcus alla madre di Carlo, una colpevole priva di colpe, che vede terminare la sua vita in una maniera indecente quanto ingiusta. E la sonata di organo che chiude il pezzo è il suo funerale, un funerale eretico, che si specchia nel profondo rosso di un sangue contaminato. Come previsto, "Profondo Rosso" è il pezzo maggiormente rivisitato: tra le altre, c'è un interessante remix e il brano che chiude il lavoro della band italiana è direttamente estratto dal film. Si tratta infatti della scena conclusiva dell'horror, il confronto finale fra Marcus e la donna, messo in sonoro e accompagnato successivamente dall'immancabile composizione.

Altro non ho da dire, se non salutarvi con un consiglio: il disco, come il film, è indispensabile. Non averlo sarebbe, per rimanere in tema, un vero e proprio delitto. Requiem.

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