Dieci minuti e rotti di epica sonata (intro ed esposizione, sviluppo, ricapitolazione) in chiave di RE maggiore rappresentano il brano più lungo di carriera di questi tre rocchettari del Michigan. Probabilmente è da ritenersi il loro capolavoro, seppure non reso nel loro stile più comune e celebrato ossia la stangata soul-rock spaccatimpani di tellurico impatto.
La ballata, con unico titolo “I’m Your Captain”, apparve per la prima volta in chiusura del terzo album di carriera “Closer To Home”, anno domini 1970. Presa la decisione di pubblicarla anche su 45 giri giocoforza in forma ridotta, sfumandola ben prima del suo lungo e gloriosissimo finale, essa fu pure curiosamente ribattezzata col titolo dell’album da cui era estratta (vedi copertina). D’altronde entrambe le frasi in questione appaiono nelle liriche… Ciò ha fatto sì che, con l’andare del tempo, la percezione di questa canzone si sia sempre più consolidata verso il doppio titolo. Chiarito ciò, vale ovviamente la pena di occuparci del pezzo tutto intero, quello che appare sull’album.
Poche parole ancora per introdurre i Grand Funk in generale: mi è personalmente chiaro, anzi ovvio che qualunque appassionato di rock che voglia distillare da questo genere l’essenza più vera e profonda, quel misto di energia e passione sconfinate, quella “botta” allo stomaco e al cavallo dei pantaloni che esalta e fa stare bene, non può non tenere questi tre energumeni nordamericani in altissima, suprema considerazione. E questo almeno a riguardo della loro fase più giovanile a trio, vale a dire fino al quinto album “E Pluribus Funk”, prima che diventassero in quattro aggiungendo un inutile tastierista e intorbidissero non del tutto, ma comunque sensibilmente la loro potenza ed innocente rozzezza.
Su “I’m Your Captain” si canta di un ammutinamento, del comandante di una nave che si rivolge alla ciurma intimandole di restituirgli il comando, delle sue paure e speranze fino all’intuibile violenza finale, ossia la sua soppressione fisica. Ma c’è una coda: quello che deve essere intuitivamente considerato lo spettro, lo spirito dello sventurato capitano intona un lunghissimo mantra “I’m gettin’ closer to my home…” accompagnato da un magniloquente crescendo ritmico ed orchestrale ed è qui che il brano, trascendendo lo stretto significato del suo testo marinaro, si prestò e si presta ancora ad allargarsi a grandioso veicolo per profondi sentimenti umani quali il ripudio della violenza e della guerra, il rimpianto e la nostalgia per la casa e gli affetti lontani, l’esperienza del terrore e del dolore assoluti.
Cosicché sin dai primi anni settanta la canzone è stata adottata dalle truppe americane in Vietnam rimanendo poi nei cuori dei reduci da quella infernale, crudele, tragica esperienza indocinese. Ancor oggi il suo compositore e cantante Mark Farner viene invitato ad esibirsi davanti dagli ormai sparuti manipoli di veterani di quel conflitto ancora in vita, tutti coi lucciconi agli occhi alla potente rimembranza che il brano fornisce, riesumando la paura e il senso di assurdità provati da giovani, quand’erano agli antipodi di casa loro ad ammazzare e farsi ammazzare per compiacere il becero gioco a scacchi fra i potenti del mondo.
Il pezzo inizia con un breve intro di chitarra elettrica, un giochetto di Farner sulla quarta corda ad accogliere il primo, eccellente canto del basso di Mel Schacher, a cui spesso era delegato il compito di sostegno melodico, al di là di quello ritmico. Il suo suono cupo e potentissimo, leggermente distorto, è stato una gioia per le orecchie di tutti i cultori di allora di questo splendido strumento e lo è ancora oggi. Farner intanto stacca accordi pieni smanettando anche di pedale wah wah per poi cedere il passo all’acustica e al canto. Il giro armonico è il solito RE-DO un poco country con abbellimenti di quarte e di none, un tipo di diteggiatura che sta senz’altro fra le prime cose che si imparano quando ci si mette a suonare; qui è particolarmente efficace, abbellita com’è dalla chiara, forte, passionale anche se imperfetta (ogni tanto l’intonazione vacilla) voce del biondo Mark.
La ritmica entra a sostegno della seconda strofa ed è un altro spettacolare giro di basso del creativo Mel a far salire di tono l’atmosfera. L’ineffabile e barbuto bassista si incarica pure di disegnare melodicamente il passaggio al ponte, risolto questo con profusione di cori a cui mette fine un poderoso “Yeah yeah yeah!” saturo di riverbero che è rimasto negli annali.
Un altro giro strofa/ponte e il pezzo prende la piega imprevedibile, romantica, visionaria e seduttiva che ha fatto la sua fortuna: rumori di risacca, gridi di gabbiani, un’orchestra d’archi che esordisce quietamente, l’impagabile basso che continua imperterrito a cantare la sua canzone nella canzone e finalmente Farner attacca il verso finale, doppiato da uno stentoreo flauto che gli risponde nota su nota. La ritmica cresce, il batterista Don Brewer si lancia in rullate sempre più lunghe ed intricate, l’orchestra inserisce controcanti e abbellimenti sempre più sfarzosi… è l’apoteosi del romanticismo ed al contempo una vera risacca di nostalgia e mancanza, per chiunque si trovi in una situazione di lontananza, di sradicamento dal proprio ambiente e dai propri affetti e valori.
Narrano le biografie che i tre musicisti dei Grand Funk Railroad sentirono la versione orchestrata di questa canzone solo a giochi fatti. Il produttore aveva portato i nastri a Cleveland curandone personalmente la sovra incisione con la locale orchestra, a loro fu semplicemente concesso di verificare il risultato finale, già bello che missato. Farner racconta che a fine ascolto gli venne da piangere, di brutto… ed afferma tuttora che quella prima esperienza della sua “I’m You Captain” appena avvoltasi con l’orchestra, a tutto volume nello stereo del loro produttore, è stato il momento più alto ed esaltante di carriera.
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