Hanno di nuovo tirato fuori i kilt dal guardaroba, ma dai Grave Digger me lo sarei aspettato. D'altronde sono vent'anni che soffrono - o godono, se preferite - di una staticità sonora e concettuale che consente loro di portare a casa il bel voto, senza infamia e senza lode.

È un po' quello che succede anche nella discografia degli AC/DC, dove il songwriting non ha mai brillato di fantasia, soprattutto nel "Post-Bon Scott", ma si accinge al solito, efficace, compitino per vincere facile con i milioni di fans che da anni continuano a divorare i loro dischi.

I Grave Digger, oggi sono proprio questo, anche se in forma meno esponenziale. Solo che, come dicevamo, lo sono diventati negli ultimi vent'anni.

La loro proposta musicale è semplice: vocals malsane, riff al vetriolo e un drumming spaccaossa, uniti a un mood cupo o epico, a seconda dell'ambientazione imbastita.

Il primo album è dell'ottantaquattro, ma i bei dischi sarebbero arrivati molto più tardi. L'apice creativo è infatti riscontrabile nel periodo 93/99 dove appare una sestina di uscite pregiate, che i fan avrebbero poi diviso in due fasi distinte: La trilogia oscura (The Reaper, Symphony of Death, Heart of Darkness) e la trilogia medioevale (Tunes of War, Knights of the Cross, Excalibur); la prima di stampo lugubre e orrorifico, la seconda a sfondo storico/mitologico. Chiude il sipario un disco che non presenta alcuna progressione sonora, ma un'ispirazione compositiva che lo rende ugualmente memorabile: Rheingold del 2003, omaggio metallico - e a tratti sinfonico - delle opere di Richard Wagner.

Da quel momento, fino ai giorni nostri, è stato tutto un riciclare materiale del periodo storico, puntando a vincere facile, rispolverando tematiche già affrontate in passato. Fields of Blood si presenta infatti come il cugino ribelle ma meno convinto di Tunes of War, e come fratellastro del più recente The Clans Will Rise Again, prova inconfutabile del fanatismo di Boltendahl riguardo la rivoluzione scozzese, scenario che viene imbastito per la terza volta nella storia della band.

Stavolta però è tutto più pomposo e hollywoodiano, meno fiero e più tamarro rispetto al già citato capolavoro del '96, ma almeno si lascia ascoltare piacevolmente, pur subendo un'inevitabile serie di alti e bassi, dovuta probabilmente all'ormai sopita vena compositiva dello staff. Tuttavia, dove non c'è sperimentazione, arriva il mestiere. La band c'è; forse meno ispirata, ma è carica e si impegna. Il risultato finale non farà gridare al miracolo, ma nemmeno vi farà fissare intensamente il bidone del secco.

Ascoltando l'intro The Clansman's Journey - con tanto di cornamuse, come ai vecchi tempi - sembra essere il procinto di un disco celtic metal, ma ci pensa l'opener All For the Kingdom con le sue strofe nude e crude e i suoi refrain corali e sontuosi a condurre l'ascoltatore nella dimensione del metallo, prova che i Grave Digger rimangono maestri delle partenze. Bello anche il mid-tempo The Heart of Scoltand e da menzionare anche Barbarian che omaggia il classico metal ottantiano mentre spetta a Freedom e Union From the Crown mostrare il lato power del disco - forse il più power oriented dai tempi di Excalibur.

Dicevamo un album di luci ed ombre, come l'avventurosa Lions of the Sea che ha dei chorus tamarri al punto da renderla quasi ridicola; o ancora l'insopportabile incedere di My Final Fight, forzata e stupidotta; il refrain di Gathering of the Clans che va a smorzare strofe abbastanza ispirate, e per finire, una title-track che si rivela una sorpresa per i suoi dieci minuti di durata, ma che non riesce sempre a tenere alta l'attenzione dell'ascoltatore, come invece succedeva con la storica title-track di Heart of Darkness, raro caso di suite riscontrabile nella discografia della band, a dire il vero a ragion veduta, perché i Grave Digger (diciamolo) non sono fatti per queste cose, ma dovrebbero puntare su pezzi tirati e catchy; se poi in mezzo vi fosse qualche innovazione ben venga; ma una suite non è certamente l'idea vincente.

Chiude il disco Requiem for the Fallen, outro sinfonica piuttosto sofferta ed ispirata, come la ballad Thousand Tears, che tenta di fare la Ballad of Mary della situazione, riuscendoci solo in parte. Presa senza paragoni è comunque un buon pezzo, sognante e malinconico.

Alla fine lo promuovo, anche se si poteva fare di più, ma almeno non si tratta di una big band che ha fatto una ciofeca (vedi Shadowmaker dei Running Wild), ma di una big band che rimane sulla scia del bel disco, rendendosi riconoscibile grazie ai soliti trademark, rifugiandosi cioè in una staticità sonora che gli permette di mantenere la sufficienza nel tempo.

Senza infamia e senza lode.

Carico i commenti... con calma