Con la pubblicazione di “ Hooked”, all’alba del 1991, i Great White innalzano un titanico monumento volto a glorificare la ruvida armonia dei pentagrammi blues (che da fonte d’ispirazione preponderante diviene unica essenza pulsante della leggendaria band americana).

Registrato fra il settembre ed il novembre del 1990 e prodotto sotto la sapiente egida dell’ abile songwriter Alan Niven, “Hooked” riesce nell’ardua impresa di scalare agevolmente le classifiche statunitensi, permettendo ai fortunati ascoltatori dell’epoca di carpire avidamente gli ultimi sorsi di arte neoclassica ancora disponibili nella purissima sorgente della tradizione rock, prima della definitiva contaminazione ad opera della sporca ed inquinata corrente grunge.

Rivaleggiando a lungo con autentici bestsellers di quella stagione quali “Use Your Illusion I & II” dei Guns N’ Roses, “Slave To The Grind” degli Skid Row e l’omonimo platter dei Metallica, il nuovo album dei Great White ottiene in breve tempo la certificazione di “Disco d’Oro” (18/04/1991) oltrepassando in scioltezza le 500.000 copie vendute nei soli U.S.A.

Il 1991 è un anno estremamente importante nella storia evolutiva dell’hard rock: l’avvento del grigio carrozzone di Seattle e la vertiginosa ascesa dell’ album “Nevermind” dei Nirvana nelle charts d’oltreoceano rimescolano con vigore le carte in tavola, modificando indelebilmente le strategie di mercato delle principali major labels. La “rivoluzione culturale” non coinvolge però soltanto il vertice dell’ industria discografica ma agisce in modo subdolo ed apparentemente irreversibile sulle coscienze degli stessi musicisti. Molte bands protagoniste degli eighties altereranno la loro proposta sonora nel vano tentativo di accattivarsi un’audience radicalmente mutata, sortendo l’ unico e fallimentare effetto di deludere i vecchi fans e lasciare perplessi gli adepti di nuovi nomi di culto come Pearl Jam e Soundgarden.

I Motley Crue, una volta assunto il nuovo singer John Corabi (ex Union), pubblicheranno nel 1994 un album omonimo interessante ma totalmente avulso dal loro retaggio musicale; gli Skid Row torneranno sulle scene con “Subhuman Race” (1995), un disco debitore in ugual misura del sound di Pantera ed Alice In Chains; i Warrant affosseranno definitivamente la loro residua credibilità col mediocre “Ultraphobic” (1995) e sulla medesima strada si perderanno tristemente anche Slaughter, Poison e Faster Pussycat. L’unico ensemble perfettamente in grado di proseguire un iter del tutto personale, frutto di una continua evoluzione stilistica maturata in modo graduale nell’ arco di una decade, è quello dei Great White: l’ album “Hooked” (splendidamente introdotto dal raffinato cover art del fotografo John Scarpoti) sarà l’ ultimo grande disco hard rock che oserà fronteggiare con la sua magniloquenza l’approccio minimale e primitivo degli acts di Seattle, sfidando con assoli sinuosi come morbide curve femminili il cielo plumbeo della nuova era alle porte. La band di Jack Russell si spoglia definitivamente della sottile patina class metal che l’aveva accompagnata sin dal lontano omonimo esordio (datato 1983 e prodotto da Don Dokken) lasciando spazio al suono vibrante ed evocativo della propria anima blues, da sempre mostrata con parsimonia ed ora ostentata in tutto il suo splendore.

Sfoggiando la consueta perizia tecnica, Mark Kendall rinverdisce i fasti del leggendario Robert Johnson dimostrandosi un blues man d’alta scuola, pur mantenendo intatta la purezza del riffing tagliente ed intenso ereditato dal maestro Jimmy Page. Il sound sprigionato dal gruppo è un meccanismo ad orologeria: la voce di Jack Russell si libra con eleganza sui rintocchi possenti dell’ impeccabile sezione ritmica del duo Audie Desbrow – Tony Montana, sposandosi con le incursioni di hammond del virtuoso Michael Lardie (impegnato anche alla chitarra ritmica ed al pianoforte). L’opener “Call it rock n’ roll” è una song di grande impatto che introduce adeguatamente il portentoso singolo “The original queen of Sheeba” , ennesimo diamante incastonato nella lunga discografia dello Squalo Bianco: vantando una struttura prettamente blues, la canzone si arricchisce di un refrain irresistibile che valorizza ulteriormente il brano. Il vortice di emozioni coinvolge anche la successiva “Cold hearted loving” e l’ intensa “Can’ t shake it” , sublime preludio alla languida ballad “ Loving kind”, ennesimo slow d’ alta classe da consegnare ai posteri. La vena compositiva dei Great White sembra inesauribile e l’energia puramente rock di “Heartbreaker” fornisce un ulteriore punto di conferma a questa tesi. La granitica qualità complessiva dell’ opera non comporta necessariamente l’ assenza di veri e propri hit – singles al suo interno: il blues suadente che permea il capolavoro “Congo square” (magistrale l’ utilizzo dell’ hammond nel cuore di questa composizione) e la rocciosa carica hard rock deflagrata in “Desert moon” dimostrano l’ eccezionale capacità dei cinque musicisti di creare soluzioni melodiche sopraffine senza nulla concedere ai sordidi canoni dell’ easy listening. Ancora una manciata di brani ed il cantato di Jack Russell, ben valorizzato anche in “South bay cities” (dove spicca l’ apparizione speciale di Terry Sasser come seconda voce), ci congeda con la ballata “ Afterglow” , eccellente rielaborazione di un classico del 1969 targato Marriot & Lane.

L’ energia viscerale del blues, lanciata in una corsa irrefrenabile lungo sentieri ripidi ed ignoti, si immerge nelle profondità più recondite dell’ oceano rock, trovando un’ ancora di salvezza nelle emozioni e nel feeling sprigionati dalla musica del Grande Squalo Bianco.

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