“Il termine latino monstrum indica essenzialmente un segno divino, un prodigio, e deriva dal tema di monere: avvisare, ammonire. Il mostro, nel significato originario, è l’apparire, il manifestarsi, il mostrarsi improvviso di qualcosa di straordinario, di divino, che viola la natura e che è un ammonimento e un avvertimento per l’uomo. Il presagio suscita un senso di meraviglia e di stupore e può essere fasto o nefasto, generando perciò rassicurazione o spavento”.

La duplice valenza del soprannaturale, del fantastico, è tratto distintivo della filmografia di del Toro, ma forse in questo caso il regista messicano porta questo rovello alla sublimazione. Sia perché, com'è evidente, il rapporto che la protagonista instaura con la creatura è di tipo amoroso, sia perché l'impostazione complessiva del film si rivela tra le più significative nell'opera del cineasta. Che smette di specchiarsi e non indulge in estetismi fini a se stessi, e crea, senza per questo fare pistolotti moraleggianti, una rete di rimandi sul significato dell'essere diversi, sull'inestricabile coesistenza di odio e amore per e tra chi non si rifà ai canoni privilegiati della società, magari suo malgrado, involontariamente.

La forza di questo lavoro sta nel dire tante cose senza mai fermarsi a ragionare, senza dare la sensazione di voler impartire una lezioncina allo spettatore. Un film di trama, precisa, particolareggia, di personaggi, ben costruiti, tridimensionali, spesso bislacchi, normalmente strambi. Una narrazione fertile, che sa prendersi i suoi tempi per costruire uno scenario credibile, semplice ma ricco di dettagli importanti. È un cinema delizioso quello di del Toro, e qui trasuda ancor di più l'amore per un certo stile filmico, che crea piccoli mondi pieni di angolini significativi, di corridoi, di scalette, di portelloni e moli. Un cinema tangibile, che emerge dallo schermo per la sua evidenza tattile.

Ovviamente questa percezione si amplifica ulteriormente nella visione del monstrum, che unisce magnificamente l'immagine della bestia a quella del dio, perché – come da etimo latino – lui è entrambi. È bestia e divinità, al contempo. Ed è meravigliosa la sua realizzazione, gli effetti speciali sono concreti e danno allo spettatore la sensazione di poter quasi toccare quelle squame, di poter sentire la durezza degli artigli e l'olezzo salmastro dell'acqua stagnante sul suo corpo. E anche di perdersi in quegli occhi spaventati eppure pieni di umanità, in quei singulti incomprensibili che dicono sentimenti dolcissimi.

Ma del Toro non si addormenta sul suo piccolo sogno ad occhi aperti, non indulge e costruisce una trama bilanciata, divertente, una caricatura dei film di spionaggio da guerra fredda. Un divertissement o poco più, che fa da cornice e schermo protettivo al cuore della vicenda, che si gioca in poche scene decisive, che concentrano tutto il significato dell'essere diversi e della ricerca di qualcuno che ti accetti per quello che sei.

La cosa più bella del film non è però questo concetto. È la visione di due alterità che si fondono, è quella sensazione di repulsione e attrazione, quella paura e fascinazione per un essere totalmente inspiegabile, definitivamente altro rispetto ai nostri parametri. La sua definizione ontologica non è possibile e non è nemmeno importante. Perché qualsiasi forma vivente, anche la più stramba, può trovare un canale comunicativo per sviluppare un contatto con un'altra, non importa se con gesti o con striduli vocalizzi. L'amore è la logica e piana conseguenza del contatto comunicativo. Comunicare è amare.

7.5/10

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