Un film che si porta dietro disapprovazioni sbraitate da circa un anno; nel maggio 2015 fu fischiato al Festival di Cannes. Ovviamente la critica straniera l’ha massacrato: su Metacritic il voto medio è a dir poco severo, 20 su 100. Ora che è arrivato anche in Italia, alcune testate hanno seguito la marea, bastonando in modo quasi sadico il povero Gus.

Ma alla fine com’è sto film? È davvero così orrendo? No, non mi pare proprio. Certo, se la si guarda con occhio freddo e analitico, la disavventura del protagonista Arthur (Matthew McConaughey) non è propriamente realistica. Ma fare propria la vicenda in questo modo significa non aver capito la tematica generale del film e non essere entrato in consonanza con esso. La questione centrale non è tanto la sopravvivenza nella foresta, quanto piuttosto la ricerca di un motivo per cui valga la pena vivere. La risposta sta proprio nella scelta di Arthur, che invece di continuare a ingerire pillole si prodiga per aiutare Takumi (Ken Watanabe). Il concetto di vivere per gli altri assume nella parte finale una connotazione magica, che non anticipo, che dà un tocco inaspettato alla vicenda, ma potrebbe anche non piacere.

La foresta dei sogni conserva per lunghi tratti la pulizia della messa in scena tipica di Van Sant. Non sempre tuttavia riesce in questo intento; le sequenze più movimentate nella foresta perdono parecchio in fatto di bellezza visiva e compostezza formale, ma era francamente impossibile fare diversamente. Nelle sue fasi non avventurose invece la pellicola si fa notare per il nitore e l’essenzialità: pochi ambienti, pochi personaggi, una staticità pronunciata. Nonostante questa strutturazione essenziale, le parti in flashback riescono a tratteggiare con efficacia un rapporto molto complicato tra coniugi. In una di esse, vediamo Arthur rientrare in casa e trovare la moglie Joan (Naomi Watts) addormentata sul divano. L’uomo si prende cura di lei, ma quando la donna si sveglia poco dopo, prende rapidamente avvio l’ennesimo litigio feroce. Le contraddizioni e le spinte opposte del rapporto di amore/odio vengono raccontate con notevole efficacia, senza mai scadere in scene madri eccessivamente prolungate ed esacerbate.

La scrittura, ottima in diversi passaggi, è responsabile di questa efficacia, più che la regia o la recitazione. C’è una capacità di raccontare le cose senza scadere in didascalie: le informazioni vengono consegnate allo spettatore in modo finemente calibrato. Non c’è fretta di spiegare il passato di Arthur in modo capillare; i fatti della sua vita spuntano con gran naturalezza nel corso della narrazione. Non c’è timore che il messaggio ultimo non venga capito, ed infatti non c’è un momento in cui viene declamato in modo nitido.

Tuttavia, ed è probabilmente questo il più grande limite del film, la sceneggiatura di Chris Sparling accosta spesso trovate interessanti e convincenti a passaggi invece particolarmente infelici, stucchevoli, banali: quando Arthur ripete innumerevoli volte «Mi dispiace», oppure quando la moglie gli fa promettere che morirà in un luogo bello e lui risponde «Ok». La freschezza con cui viene presentato il contesto matrimoniale lascia spazio, da un certo momento, a una insistenza e una ridondanza melliflua difficili da sopportare. È questa scarsa costanza nell’ispirazione dello sceneggiatore a limitare fortemente la qualità dell’opera. Certo, nemmeno Van Sant si fa notare per trovate grandiose e gli attori regalano giusto un paio di momenti alti in mezzo a tanti altri recitati invece col pilota automatico. Non un gran film, ma nemmeno il disastro totale che ci si aspettava.

5.5/10

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