So di dire una banalità grande quanto Giuliano Ferrara, ma l'amicizia mista al rispetto è forse l'unico sentimento che è necessario provare nella vita, in quanto non ha controindicazioni. Poi uno non sceglie quali sentimenti provare, vero, di solito sono i sentimenti che scelgono lui.

Håkan Hellström è un cantautore svedese di medio successo in patria, praticamente nullo al di fuori, muove i primi passi a Göteborg alla quale deve il suo primo successo discografico "Känn Ingen Sorg För Mig, Göteborg" ("Non dispiacerti per me, Göteborg"), un melodico menestrello rockpoppettaro che si è fatto strada fra i ghiacci e le lunghe giornate d'estate del Nord Europa. Daniel Gilbert è anch'esso un musicista svedese, fondatore fra gli altri dei Broder Daniel, a livello di successo più o meno sulla stessa linea del suo amico d'infanzia e di vita Hellström; così amici che nel 2005 uscì "Ett Kolikbarns Bekännelser" (letteralmente "Confessioni di un bambino con le coliche") in cui i due suonano assieme, un disco di un onesto folk-rock scandinavo.

In "Hurricane Gilbert", in sesta posizione, Hellström riprende il nome di un noto disastro ambientale nella Capo Verde di fine anni '80 e dona a quel suo compagno di viaggio, un compagno che i più fortunati possono avere, il privilegio di cantare non appena trovano l'ispirazione per uno dei pezzi migliori della propria carriera. Bella questa musica che ho scritto, a chi la dedico? Questa mi ha lasciato, questa l'ho lasciata io, a mio padre ho già scritto un paio di canzoni che il pubblico non capirà mai perchè la maggior parte di loro è costituito da capre, allora questa la dono a colui con il quale ho diviso viaggi, sogni, storie, fotografie e dissapori in banco assieme a scuola.

Io c'ero quando tu eri innamorato e tu c'eri, ci sei, per me, m'ha fatto male vederti lontano e senza quella malinconia di fondo che rende le persone interessanti, m'ha fatto bene vederti tornare e ti affogherei i dispiaceri in un Long Island tenendoli a fondo con le mie mani finchè non smettono di respirare, poco importa se poi le mani appiccicano. La canzone ha un senso d'eterno impantanato nella neve Svedese, di quella Svezia che tu conosci molto meglio di me, un soffio freddo che non può raffreddare un legame a cui devi buona parte di quel che sei.

"Tutti parlano di te, Hurricane" e io ne parlerò per sempre, di Londra, il freddo di Amsterdam, Budapest, del mare di Sicilia e soprattutto delle onde di Valencia. Uragano, uragano, ovunque uragano. Tempo che passa e non torna, gli "anni d'oro del grande Real" li hanno passati tutti e i nostri, quelli del grande Barcellona, stanno finendo, "Hurricane Gilbert" può non dire niente ai più ma dice tutto a chi la ascolta nel momento giusto. Come ogni cosa, ecco un'altra banalità. Come possono credere nell'amore eterno, come possono crederci adesso nel bel mezzo dell'uragano, sei un appoggio di fronte ad uno specchio, una fetta di vita, e crederanno davvero che starò qui a vedere le stagioni passare un giorno in più finchè non arriverà, forse, chissà, la fine di questo?

"Hurricane Gilbert" termina prendendoti la mano e Håkan Hellström scrive senza saperlo la pagina più forte della propria carriera, guadagnandosi un posto nella discografia di chi ha un cuore che tralascia per un attimo le schitarrate e gli assoli, gli inchini ai padri progressivi, i canti arrabbiati dei punk, le scopate, gli sputi e le poetiche scurrili dei Garage, i viaggi acidi degli psichedelici e i larghi scantinati protetti da reti metalliche dei New Wave, tralascia la rozzezza degli anni 70 e i sogni dei 60, la nevrosi inutile dei 90 e la voglia di far conoscere il malessere degli 80, tralascia tutto, resta il cuore.

Ah, poi c'è il resto del disco: fa cagare.

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