Scrivendo "La banalità del male" Hannah Arendt (1906-1975), filosofa, politologa di origine ebrea tedesca successivamente trasferitasi negli Stati Uniti, ci ha lasciato, al contempo, una lucida cronaca di uno dei processi più importanti del ‘900 ed, assieme, una più ampia riflessione sull'origini dello Stato totalitario e sulle sue inevitabili derive, prima fra tutte, per ovvia contingenza storica, l'Olocausto.

Il libro ruota attorno al processo, da parte delle autorità del neoformato stato israeliano, svoltosi nel 1960 a carico di Adolf Eichmann, ufficiale delle SS, rifugiatosi in Argentina a seguito della fine della II guerra mondiale (passando per le nostre Bolzano e Genova), corresponsabile della morte di svariati milioni di ebrei, oltre che di rom, omosessuali, dissidenti politici e soggetti indesiderati in genere che furono internati nei campi di sterminio nazisti.

A differenza di altri ufficiali delle SS, Eichmann non ebbe tuttavia alcun ruolo attivo nella gestione dei campi di sterminio, non impugnò armi, non commise alcun atto di sadismo, e con ogni probabilità non conobbe, direttamente, alcuna delle proprie vittime: perché il ruolo di Eichmann, nell'Olocausto, fu essenzialmente quello di organizzare il trasporto di "materiale umano" (sic) dalle principali città tedesche ai campi di stermino di Auschwitz, Treblinka, o Dachau, utilizzando e gestendo soprattutto il trasporto ferroviario. Fu questa la sua specialità ed unicità: prendere parte attiva (non puramente ideologica) ad uno sterminio, senza mai torturare o uccidere.

Su queste vicende, che volutamente semplifico, si imposta tutto il libro, il quale, oltre a seguire lo svolgersi del processo con puntualità quasi giornalistica (che non ci aspetteremo dall'Autrice), contiene non poche digressioni circa le modalità con cui si svolse, concretamente, lo stermino degli ebrei (perdita della cittadinanza d'origine, degradazione allo stato di apolide con conseguente privazione di diritti civili e politici, oltre che della essenziale protezione diplomatica), riguardo a specifici episodi avvenuti nei campi di concentramento, oltre che attorno alle possibili matrici culturali ed ideologiche dell'antisemitismo ed in relazione agli eventuali sviluppi dell'Olocausto (che, come le lancette di un orologio, sarebbe proseguito sterminando le popolazioni slave, latine, galliche... lasciando soli gli Ariani).

Ritengo tuttavia più interessante, e, nei limiti, utile, soffermarmi sui molteplici interrogativi che questo libro, al di là della vicenda narrata, concreta ed al contempo "esemplare", solleva, risultando attuale, e fornendo più di qualche monito, per il presente e per il futuro.

Quali sono i confini della responsabilità individuale rispetto a fenomeni più complessi, in cui la nostra azione, apparentemente neutrale nei mezzi e nei fini, può essere funzionale al compimento di un disegno più grande? Eichmann, a propria discolpa, affermava di essersi occupato di un "segmento" dell'Olocausto, di aver tessuto il filo di una trama più grande e di un disegno che ignorava nella sua complessità e crudeltà. Io non saprei che rispondere.

Lo Stato, il potere pubblico e le sue leggi, originariamente creati come istituzionalizzazione di un fenomeno aggregativo, come una formazione socio-giuridica complessa volta a tutelare e garantire il singolo incapace di proteggersi da solo da pericoli, carestie, aggressioni esterne ed interne, può divenire, nella apparente neutralità dei propri mezzi (come la "banale" organizzazione del transito ferroviario) uno strumento implacabile di morte e di sopraffazione, in una sorta di sua deriva patologica? Eichmann, in fin dei conti, era un uomo di Stato, un alto dirigente pubblico, che come tale operava, non rendendosi conto (o fingendo di) delle implicazioni della sua attività, estranea in quanto rimessa ad altri individui, di cui si postulava l'autonomia di pensiero e azione. Cerco, anche qui, una risposta che non è semplice, risulta dolorosa.

La crudeltà dell'individuo è innata, ineludibile, per cui, abbandonata la clava o lasciati da parte coltelli, pistole, fucili, il singolo può comunque uccidere con un semplice tratto di penna, che decide il destino di altri individui, "astraendo il Male" e quasi sublimandolo in un gesto di morte tanto incruento nella sua apparenza quando implacabile nella sua sostanza? Eichmann affermava con sdegno, ed in probabile "buona fede", di non aver mai torto un capello ad un individuo, di essere incapace di impugnare un arma e rivolgerla contro un altro uomo, e quindi di non poter essere definito un assassino, e condannato come tale. Ma è sufficiente? Non so rispondere, nemmeno qui.

Tanti altri sono gli interrogativi che questo libro, quasi inesauribile nelle suggestioni e riflessioni che può dare, solleva nel lettore.

Un piccolo cenno critico finale va tuttavia dedicato ad un profilo che, a mio avviso, rischia di passare inosservato, non essendo trattato con particolare efficacia dell'Autrice, ma non è meno importante: il processo ad Eichmann fu rispettoso delle garanzie dell'imputato (anche data per assunta la sua natura "criminale"), fu basato su riscontri oggettivi o non fu, piuttosto, una forma larvata di vendetta, di prosecuzione della guerra personale dei servizi segreti israeliani e degli stessi giudici israeliani nei confronti di un correo dell'Olocausto e della morte di parenti, concittadini, correligionari degli agenti del Mossad e della stessa Corte?

Dando anche per assunto che Eichmann impersonasse il Male, nella sua forma apparentemente più indifferente, quotidiana e, dunque, "banale" ma non per questo meno pericolosa, possiamo dire con certezza che di quello stesso Male non siano stati vittime gli agenti, i suoi stessi giudici, ed, in ultimo, il boia che lo impiccò, e che il Male fatto nell'Olocausto proseguì, mutando forma ma non sostanza, anche nel processo di cui fu testimone la Arendt? Nel processo ad Eichamnn, dunque, funzionarono meglio la bilancia, o la spada, della Giustizia? La risposta, in questo caso, potrebbe intuirsi, ma è meglio non darla. Magari sarebbe più consolatorio dare quella sbagliata.

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