Partendo da una considerazione scontatissima, ossia quella secondo cui per cogliere pienamente l’essenza e il modo di far musica di un complesso bisogna procurarsene un “live”, dico che “All those wasted years” è il manifesto per eccellenza dei cinque glam-rockers provenienti dal freddo della Finlandia, band che come ho già detto (per la cui descrizione rimando alla mia recensione precedente) non ha riscosso un successo commerciale equiparabile alle sue potenzialità.

Dunque ragazzi, immaginatevi la scena, ma immaginatevela forte, è il 1983, siamo al Marquee di Londra in un gelido giorno d’inverno, i cinque efebi della penisola scandinava sono quasi all’apice del loro (modesto) successo, e nel tour per promuovere il loro ultimo lavoro “Back to the mystery city” toccano la capitale inglese, un anno dopo e più o meno nello stesso periodo, volati per il loro primo tour oltreoceano di supporto ai Motley Crue, persero in un tragico incidente (Vince Neil al volante) il batterista “Razzle” e di lì a poco si sciolsero, ma questa è un’altra triste storia..

Torniamo al cd, pardon, al concerto; il locale è stracolmo c’è grande attesa per il concitato punk-glam-rock e anche un po’ di scetticismo, il punk qui è considerato morto e sepolto dai tempi dei Sex Pistols. Ma eccoli salire sul palco, Andy Mccoy più in forma che mai con la sua giacca da indy e cappellino da cowboy rosso, mentre la “pollastrella Mike” , giacca nera a bordini fucsia, è fedelmente truccata e con i capelli più ingombranti e glam del mondo.
One, two, three, four.. ed ecco che partono , dopo un intro iniziale denominato “Pipeline”, con “Oriental beat”, tratta dall’omonimo album datato 1982, un classico, primo assaggio di dirompente energia, primo sentito assolo di sax per Mike e tentativo riuscito di descrivere un simpatico viaggio in sol-levante che portò molti consensi anche da parte dai nipponici, poi, neanche il tempo di respirare e ancora subito via con “Back to the mystery city”, canzone magnifica, un randellante tumulto di rock’ n roll, di mastodontiche proporzioni che mescola frizzante e infiammatorio dinamismo con la nuda, scarna aggressione degna dei “New york dolls” segue, a completare un’ inizio a perdifiato, “Motorvatin” col suo intro di basso, arriva anche qui esplosiva potenza, riff a rottadicollo, pogate e nervi tesi.

Il ritmo cala con la tetra, sensuale, evocativa ballad “Until I get you”, introdotta da un semplice “this is a song about a girl and a very beautiful boy“, ed ecco venir fuori tutta la sfrenata passione di Mike, ora seduttore, ora tormentato da un languido sentimento, che trasuda sofferenza quando alla chitarra Mcoy sembra trotterellare verso un sofferto triste finale.
L’atmosfera diventa sempre più calda con la psicotica, sperimentale "Mental beat” qui i cinque sono tremendamente allucinati, con Mike che cazzeggia al microfono coinvolgendo il pubblico a intonare il ritornello, urletti isterici qua e là prima della lanciata semi-esibizione di Razzle alla batteria; il pezzo in definitiva stordisce con il suo incedere a modo di rituale baccanale, una sorta di orgia, e il pubblico stordito, sembra non distingure la chioma di Mike dalle luci al neon del locale quasi completamente buio.

Dopo un piacevole assolo di chitarra inizia “Don’ t you ever leave me”, unico pezzo rallentato rispetto alla versione su disco (quella di Bangkok), infatti tutti gli alti pezzi risultano essere più veloci, grezzi, istintivi e magniloquenti, a dimostrazione del retaggio punk degli Hanoi Rocks. “Tragedy” altro indimenticabile classico la segue, gli è praticamente attaccata, i riff scapestrati e taglienti, un caos infernale tra la folla e poi “Malibu beach nightmare”, intensità implacabile, batteria, chitarre e sax a perdifiato ne fanno un pezzo irripetibile, ancor più come live ove risulta più concitato e spumeggiante che mai.
Segue la gradevolissima, seppur modesta, “Visitor” in cui Mike in pratica ammette di essere un delinquente (quelle tre|quattro cose che un cocker che si rispetti non si fa mancare); e poi la stupenda, sempreverde, sincera, antiretorica “11th Street Kids”. L’ultima salita prima del rush finale è data dalla testarda, ipnotica, “Taxi Driver”, uno di favoriti come live, una minaccia per la tranquillità e positività umana e il kick-ass-roch’n’roll di “Lost in the city”. C’è anche spazio per un po’ di cabaret, con la simpatica filastrocca “Lightin Bar Blues” una vera e propria dichiarazione d’ intenti un richamo alla purezza delle attitudini dei veri rockers
I don’ t need no diamond rings I don’ t need no cadillac car I just wanna drink my ripple wine down in the lightin bar”. (purezza che di fatto persero, insieme al batterista, con la pericolosa compagnia dei Crue).

Beer and cigarette” altra netta dichiarazione di intenti, destinata a diventare una sorta di inno e accettazione, compenetrazione di quello stato di stars compiaciute e stramaledettamente segnate da vizi, ma anche umile forma di primitivismo etico, un rock senza fronzoli, chitarre funamboliche e Mike che sgambetta armonica alla bocca. Ed infine le tre covers, che per quanto non tocchino in efficacia e malessere le originali sono senza dubbio ben interpretate e ben suonate, secondo il loro sleale a tutto divertimento.
La prima è “Under my Wheels” di 'Alice Cooper ' forse delle tre la meglio interpretata, in “I feel alright” Mike fa la sua figura, certo non ha la sublime pazzia da cane randagio malato di Iggy Pop che sbavava nella sua 1970 urlando a squarciagola “I feel alright” col pubblico che scongiurava di non venir preso a morsi da quella delirante e folle foga.

Conclude, prima dei saluti finali, prima di quella che nel dvd funge magnificamente da companatico la “Blitzkrieg Bop” (con Mike e Razzle che si invertono i ruoli) ed inspieabilmente esclusa dal cd, ”Train kept a rollin” tirata all’inverosimile col pubblico che la intonerà fino a casa ubriaco e strafatto ma conscio che nottate come quella passata sono una grossa boccata d’aria per la musica.

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