Mi accingo a recensire il primo album di uno dei gruppi più sottovalutati della storia della musica.
Piccola digressione storica, siamo agli albori degli anni 80 , dopo l’ esplosione del punk e la morte di Lennon si è raggiunta una situazione di stallo dal punto di vista musicale. Dal gelo della penisola scandinava cominciano a farsi strada cinque strafottenti musicisti , che suonano nei club e vivono nelle peggiori bettole. Mike Monroe è il frontman nel gruppo, capelli cotonati , rossetto , trucco , spandex ma anche tanta arte.. studia pianoforte e venera i New York Dolls. Andy Mcoy forgerà negli anni un feroce stile alla chitarra unico per passione-dedizione-maledizione. Il loro look puramente glam ed esuberante cattura l’ attenzione di una generazione che non ha ancora digerito gli sgorbi post-punk e le smielate ballate della disco music. L ‘album in questione è “Bangkok Shocks Saigon Shaker “ con il quale non sfiorarono nemmeno il successo internazionale cosa che di fatto fecero solo con il quarto , “ ultimo vero” album …sottovalutati appunto , le dieci composizioni elaborate dal gusto sopraffino di Mccoy si fondono straordinariamente con la pomposa immagine del frontman in un mix di glam-punk-street and rock and roll.
Ed ora le canzoni...
Si apre con “Tragedy” e il suo grezzo, richiamante, tagliante riff , quattro minuti di furioso rock caratterizzati da un ritornello di straordinaria intonabilità ,e continui liquidi fraseggi chitarristici , è la canzone che esemplifica lo stile della band, robusto ed essenziale , senza fronzoli , magniloquente ma efficace.
Se qualcuno ha qualche dubbio sulla sessualità di Monroe , ascolti “Village Girl “ e li vedrà spazzati via, nonostante l’attitudine glam sembra che “il buon mike “ non abbia perso l’ abitudine a molestare le ragazze, questa fittizia ode alla purezza femminile è in realtà un modo per … beh , avete capito; musicalmente, ha un andamento ritmico cadenzato quasi a modo di danza tribale, con il solito ritornello cantabile e coinvolgente, ma verso la fine la chicca del lacerante urlo di “Monroe” seduzione , eccitazione , e disperazione nelle sue strenue corde vocali.
In “Stop Cryin“ il discorso cambia ma di poco ancora il tipico suono della band , ancora Mike seduttore, qui cerca disperatamente di persuadere una giovane donna di privarsi della sua biancheria intima, mentre la band mantiene il sound sull’ orlo del precipizio prima di esplodere con tutta l’ energia nell’accompagnare l’ eccezionale assolo al sax di Mike. Si divertono a suonare questi ragazzi , e “Don ‘t Ever Leave Me “ ne è un ulteriore prova: ha davvero poco della ballata ma di fatto è quello che diventerà nell’ album e per esteso nella loro discografia.. molto meno retorica di tanto altri sgorbi hard rock o pop-metal mantiene un buon ritmo, l’assolo di Mccoy è gradevole ed il finale con Mike che sussurra…” Is sweet to taste the lips between your legs..”( è dolce toccare le labbra tra le tue gambe) è tutto un programma. Questi sono gli “Hanoi Rocks” prendere o lasciare suonano per vivere, Sopravvivere e hanno nella soddisfazione del piacere personale il loro unico scopo di vita. Il lato A si conclude con “Lost In The City” in cui la band sembra voler intraprendere il terreno dei primi Mott the Hoople e naturalmente delle “ bambole di New York” pezzo dal ritmo frenetico il giro di chitarra è epico e demenziale allo stesso tempo e in definitiva rincoglionisce con la sua velocità portando il disco ad un intensità che non raggiungerà più.
Il lato b inizia con “First Timer” che sembra poco più di un modo per far si che Mccoy dimostri quante note sappia suonare...è un ottimo riempitivo, ben suonato ma nulla di più. L’ intro del pezzo successivo “Cheyenne“ è la classica cosa che non ti aspetteresti da dei tipi come loro, arpeggio acustico di una barocca sicurezza degna della Lady Jane degli Stones, il tutto condito da un sottile strato di decadenza dato da un’ armonia delle più dolci, prima di esplodere nel tormentato, caotico rock’n’roll da calci nel sedere.Hanno provato a dimostrare di saper fare qualcosa in più oltre che fare casino e direi che ci sono riusciti.
Il pezzo successivo, “11th Street Kids“ è a mio parere insieme a “Tragedy“ il migliore dell’album e vi spiego subito il perché: il motivetto di chitarra che lo accompagna è demenziale lo so, ma c’è qualcosa in questa cazzo di canzone che mi emoziona, ha una nostalgia e una malinconia autentiche, momenti del vissuto che riaffiorano “Remember all the nights we wrote on the walls that punk never die” , “Remember all the nights and days we spent underground”..la tristezza di chi volente o nolente rimane solo come un cane nella città che ama, la tristezza per chi se n’è andato per sempre e la consapevolezza che anche se “qui gli incidenti capitano ogni giorno“ non lascerò mai l’undicesima strada. Bella, sincera, commovente, mettiamo da parte un attimo la bravura da segoni tecnicamente perfetti che qui non c’è, ascoltiamo la musica e basta, cazzo!
L’album poteva finire anche qui, poiché le due tracce successive “Walking With My Angel”, cover di Gerry Goffin, e “Pretender” non aggiungono nulla se non la conferma del bel lavoro di cui è capace Monroe al sax,strumento tutto sommato inedito per il genere.
E’ difficile definire il genere del suono che hanno pompato questi cinque ragazzi, diciamo che, da un punto di vista storico rappresentano pur con le loro peculiarità nord –europee un anello di congiunzione tra il punk/glam anni 70 e la scena street anni 80, di gruppi arci noti che succhiarono linfa creativa da questi cinque disgraziati ce ne sono molti…su tutti Guns n Roses e Motley Crue.
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