3,5 senza eccessi.
Harry Nilsson è stato un cantautore newyorkese, è morto relativamente presto, ha avuto una vita movimentata ma non ha fatto storia. È per questo che scrivo di lui, oltre che per mettere un po’ d’asfalto su questa buca di Debaser.
Harry si è dato molto da fare nel corso della sua vita artistica dal punto di vista compositivo, tirando fuori in meno di trent’anni di attività più di venti album. Il problema è che ha reso nota la sua pellaccia grazie a brani altrui e a un evento fortuito - ma meraviglioso - per cui ha brillato di luce riflessa. Quando John Lennon e Yoko Ono si allontanarono nel settembre del 1973, lo sciamano inglese se ne andò per diciotto mesi a Los Angeles che trascorse in compagnia di Ringo Starr, Keith Moon e lo stesso Nilsson. Il selvaggio periodo, sdrammatizzato successivamente col nomignolo di wild weekend proprio da Lennon, fu momento creativo fervido e divertente, arricchito da ulteriori presenze stimolanti oltre a quelle già citate. John diede alle stampe l’album "Mind Games" e, soprattutto, si avvicinò molto al prolifico Nilsson di cui decise di produrre il disco uscito l’anno successivo dal titolo "Pussy Cats". Tutto un programma. Certo, non un programma propriamente entusiasmante, però assolutamente degno di essere menzionato e figlio evidente di giorni bastardi e accartocciati nella carta stampata che riportava i loro episodi di bivacco.
L’album è un pacchetto ben confezionato di canzoni d’autore dall’aspetto complessivo un po’ snob ma dall’aura dell’interprete che ci sa fare. I sessanta sono stati superati da poco ma le influenze di un certo tipo di ballad sono nette e servite precocemente su un piatto di portata retrò. Buon esempio di quanto stia dicendo è rappresentato dall’introduttiva "Many Rivers To Cross", brano pluricoverizzato sin dal momento dell’uscita e scritto in orgine nel 1969 da Jimmy Cliff. Questa versione mi prende più dell’originale e di qualsiasi altra riproposizione, trovandoci dentro le principali caratteristiche di tutta la release. Sembra proprio musica senza tanta voglia di star dentro ai panni della canzone con i piedi per terra. Tende a svolazzare, a essere un protuberanza d’anima e mi sembra anche un’involontaria ed embrionale premonizione sul modo di fare musica dei Mercury Rev di Deserter’s Song. La voce greve ma leggiadra e raspata dagli eccessi (più volte Harry perderà magnificamente l’aria cantando) suona magnifica con il difetto del “come si direbbe in questi casi”. Ottima interpretazione, quindi, macchiata da un po’ di dejavù sonori, che scorazzano anche tra Joplin, Dylan e Bowie. Per avere un’idea completa di come siano spizzate le carte a livello di buon vecchio poker 5 card draw, la tracklist sale e scende scalini emozionali infliggendo alternativamente colpi al cuore e botte di vita da manuale. Ecco, è la costruzione dell’album il suo miglior pregio, insieme ai patemi vintage di una musica che pur non raggiungendo mai livelli eccelsi, vuole fornire a Nilsson l’occasione di fare un salto di qualità. Che non ci sarà comunque per questa grave defaillance di originalità. Peccato.
Il disco procede tra cover e pezzi di paternità dubbia mescolando comunque buoni momenti di rock n’ roll e irritazioni blues che scorrono via tra attimi più memorabili e un panta rei di cui non te ne può fregare di meno, a tratti. Le brevi apparizioni degli altri due della compagnia del weekend alla faccia della Ono non sono sfruttate al massimo della loro potenzialità. Menzioni particolari a "Subterranean Homesick Blues", "Dont Forget Me", "Old Forgotten Soldier", "Save the Last Dance For Me", "Rock Around the Clock" che meritano su tutte un ascolto.
E quindi una riflessione finale. Sarà stato il periodo da sballo condito da un certo menefreghismo nei confronti del lavoro, ma l’apporto di Lennon a questa uscita discografica risulta essere un condimento di pura mestieranza esperta. Non ci sono picchi creativi notevoli e mancano spesso le buone doti che Nilsson aveva mostrato in album precedenti. Sarà stato frenato proprio da Lennon? Secondo me no, secondo me si sono solo divertiti per diciotto mesi di fila a stare in stato d’ebbrezza e dedicarsi alla musica in maniera divertita, giocosa e comunque un po’ sofferta. Per questo "Pussy Cats" è un album che mi piace e che ogni tanto ascolto col sorriso sotto i baffi e sopra la barba. Soprattutto per quella meravigliosa opener che davvero ne vale la pena.
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