“Chiunque acquista un album degli Hate Forest, acquista un’arma contro se stesso”. La foresta dell’odio. Basterebbe tradurre il nome del gruppo per spiegare il senso di tutto ciò che esce dai loro strumenti. Gli ucraini Hate Forest sono un mito, una leggenda, una di quelle band destinate ad essere e rimanere “di culto” per sempre, una delle realtà più innovative e al contempo sottovalutate dell’intera scena black metal. Certo, il loro verbo è puro black nordico, freddo, anzi glaciale, da 340 gradi sotto zero, cupo e nero come la pece (o forse più).
Ma parliamo di quel filone introdotto dai Darkthrone che si basa su riff monocorde e chitarre a zanzara? Parliamo dei soliti inni da demone risvegliato dopo millenni, di produzione grezza ed atmosfera da foresta ghiacciata? No, non è quello che pensate. Gli Hate Forest sono diversi, nei suoni ma anche nell’attitudine. Il loro essere “di culto”, nonostante l’altissima qualità della loro proposta, è una vera e propria scelta attitudinale. Prendono le distanze da Darkthrone, Satyricon e tutte quelle band da sempre in mezzo al giro, ovunque si parli di black metal. Loro se ne stanno nascosti, compongono nel più totale silenzio, non hanno nessun contatto con tutto ciò che riguarda culti satanici e roba simile, sono distanti dalla scena e non hanno nemmeno un sito ufficiale, prendono ispirazione unicamente dalla natura e dalla loro interiorità. La loro filosofia è il totale rifiuto del mondo, dei media, accovacciati in un’aura di mistero, estremizzando al massimo la concezione di “underground”. E chi riuscirà ad andare oltre le apparenze e i pregiudizi non potrà non notare quanto c’è di spirituale e ascetico nella loro musica. “Purity” ne è il perfetto esempio.
Ogni canzone inizia con lo stesso identico intro atmosferico. E’ “Domination”. A tradimento ecco una distorsione di chitarra ad oscurare tutto, che strappa la pelle dalla carne, mentre l’accelerata di batteria toglie ogni barlume di speranza, in 40 secondi di buio assoluto e totale. Le prime due tracce non concedono nemmeno una pausa per respirare. Chitarra, batteria e voce scorrono seminando morte ad ogni passo. Forse è solo la tempesta, la bufera di neve che precede la calma ed il cupo silenzio della foresta. Ma esso non tarderà ad arrivare: lo si troverà in “The Gate”. Il primo riff del brano ricorda molto da vicino i primissimi Immortal, uno spirito epico quanto tenebroso, ma con una voce in growl che scava nell’inconscio e risveglia tutte le paure. Questa cavalcata nella notte occupa la prima metà della canzone, ed in quel fatidico attimo (4.53) tutto cambia, come se la violenza della bufera si fosse tramutata nella leggiadria del vento, un nero viaggio spirituale che accompagna i sensi e l’anima. La chitarra rallenta la sua corsa fino a trascinarsi, come un dannato che si inginocchia alle porte dell’inferno e chiede perdono. Ma la pena eterna è inevitabile. Il moto lento della batteria diventa un’onda, un via vai di sensazioni, un flusso di lacrime cristalline che si perdono nel vento, lasciate a se stesse. E’ lo spirito della foresta che si incarna in quegli strumenti, in quelle note, il grido sordo di disperazione di chi si è perso in quel sentiero ed è perito, sommerso dal freddo. Sensazioni difficili da descrivere a parole. Ed infine sarà nuovamente la bufera a chiudere la canzone, la violenza, ma più pacata, sfumata nel suo incedere, fino alla successiva “Megaliths”, un altro attacco senza pietà alcuna. Occorrerà aspettare il quinto brano, “The Immortal Ones” per riprovare le sensazioni donate da “The Gate”. La struttura della canzone cresce, quasi maligna, fino ad un momento di stasi... La chitarra sembra sussurrare delle frasi incomprensibili, che presto si tramutano in un canto di dei lontani. Ecco un’altra canzone che riesce a farti sentire il brivido della foresta ghiacciata, quello che solo la neve gelata sulla pelle riesce a dare. Ed il brano procede lento e soffuso, fino alla confusione mentale di “Desert Of Ice”, un riff che smette di avvolgere e inizia a travolgere, letteralmente. La conclusione è affidata a “Cromlech”, un susseguirsi di schitarrate e distorsioni gelide, che lasciano smarriti e impotenti, per poi richiudersi e tornare nella tomba, sotto la neve.
Negli Hate Forest, lo ripeto, non troverete banali riff monocorde e melodie da suicidio immediato, come magari qualcuno avrà già immaginato, ma qualcosa di molto più vicino ad un viaggio spirituale, una sensazione sottile e perversa, ma percepibile sotto la pelle. Non adatto ai deboli di cuore.
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