[Non metto stellette o voti numerici perchè per esperienza personale vedo che in loro presenza ogni parola perde senso]
Nel trattare di quest’opera, la prima osservazione che mi ha passato, è stata una riflessione sulla nascita e lo sviluppo di quel torbido e dilatato (se non ormai squassato) fenomeno chiamato Black Metal. La considerazione precipua del ragionamento, legata sommamente al disco di cui tratto in questa pagina, riguarda l’evoluzione coscienziale che ha interessato l'universo partorito da un odio ottuso e cieco nei confronti di una realtà sentita e vissuta ma non analizzata razionalmente, infine assaltata in maniera furibonda da una nutrita schiera di giovani e giovanissimi, privi degli strumenti attraverso cui molti si proteggono e si fortificano sotto i colpi delle casualità più disparate, tra le quali la dilaniante monotonia del vivere consueto ed uniformizzante. Privati dello scudo di ciò che chiamiamo Cultura, comune patrimonio di esperienze umane, basandosi unicamente su loro stessi, dei ragazzini si fecero espressione di un sentimento comune, che solo molto più tardi, cresciuti – ma non tutti ne furono capaci -, riuscirono a descrivere e a raccogliere in una riflessione compita.
La frustrazione per un mondo inaridito dalla luccicante sterilità del consumismo, per popoli, persone ed amici nati o tramutati in schiere alla mercè delle poche ed insipide opinioni lanciate dall’alto di qualche irraggiungibile pulpito da un’ elitocrazia globalizzata e grigia furono ottimi catalizzatori di un malessere che si tradusse in quel celeberrimo grido che percosse la civilissima e ragionevole Norvegia e poi altri stati, diffondendosi a macchia d’olio, corrispondendo allo sfogo di una comune insofferenza occidentale contro uno stesso universo e mondo di valori occidentale. I tempi si evolvono, e l’attuale stato delle cose impedisce il protrarsi dell’ ingenua rivoluzione da cui tutto nacque. Oggigiorno, non c’è gruppo valido che non abbia più o meno direttamente dovuto fare i conti con la realtà, uscendo dall’ universo quasi mitologico dietro i cui cancelli si era rinchiuso come protesta contro un mondo che senza capire rifiutava e affrontare lo scontro tra esteriorità e realtà interiore. Attenzione, poichè è questo un processo evolutivo che pochi sono stati in grado di abbracciare, e a riprova di quanto dico basta pensare alle migliaia di gruppi-fotocopia che ogni mese spediscono fiduciosi alle varie ‘zines il proprio scontato demo, non accorgendosi di non aver creato nulla di diverso o personale, limitandosi a seguire senza comprendere un cammino fin troppo battuto da altri.
Cos’ è richiesto alle band e ai pensatori di questo nuovo ciclo? La consapevolezza. Consapevolezza di noi stessi e del mondo che scorre attorno e, particolarmente, delle dinamiche e dei meccanismi che lo dominano e che influenzano noi stessi. E’ inutile e controproducente continuare a porsi in una visione delle cose che Nietzsche avrebbe definito “monumentalismo malato”, arroccandosi cioè, in un’esaltazione di un universo edenico e assolutamente posticcio, creato come reazione allo squallore quotidiano, popolato di demoni, satanismo, paganesimo o fate. Questo è qualcosa che ha avuto un valore fondamentale (basti pensare alla bellissima potenza evocativa di ogni singolo disco degli Immortal) e rivoluzionario ma è ora tempo che la disillusione e il disincanto prendano le briglie di quell’universo; non distruggendolo, ma conducendolo ad un evoluzione, ovvero arricchendolo di un significati più profondo e di una materia più densa.
L’introspezione è la chiave che dischiude il senso più profondo dell’Essenza e dell’ancestrale motore delle cose, ed è ad essa che devono guardare come ad una venere le band maturate, tra le quali inserisco ancora una volta gli Immortal, gruppo che per eccellenza ha creato un impianto mitico, sottilmente permeato però di una forte corrispondenza con la concretezza del vivere. "Nei Tempi Oscuri ci sarà ancora il Canto? Sì, ci sarà il canto, che parlerà dei Tempi Oscuri. "Questa è l’ alta frase (attinta da Brecht) che ho letto nel sito degli Hate Profile, one man band di cui finalmente mi accingo a recensire la prima opera, 'The Khaos Hatefile'. Ho scelto di riportarla, perché in essa è condensata tutta la Consapevolezza e l'autocoscienza che credo sia necessarie, come ho prima precisato, alla nascita di un' "opera bona". Che abbia tra le mani qualcosa di estremamente sapiente è intuibile dalla struttura esteriore del disco, dalla copertina siglata con simboli di coerente valore teoretico (niente pentacolo-standard o annessa croce rovesciata), come ad esempio lo stemma di Mercurio, ambigua divinità protrettrice dell’ingegno umano (slegata da valori morali: difensore delle arti, ma anche dei ladri...), all’organizzazione delle canzoni, che richiama un’intelaiatura la cui solidità e chiarezza è di ascendenza aristotelica.
Quest’Opus I (prima di un progetto che vedrà altre due parti) si compone di tre argomentazioni, in un crescendo in cui niente è stato lasciato al caso. L’intera opera, un trittico, ha il preciso obbiettivo di “manifestare” un percorso evolutivo interiore, scandito da tappe che in parte possiamo già toccare con mano con questo “the Khaos Hatefile”. Formalmente parlando (almeno apparentemente), il prodotto degli Hate Profile è musicalmente conforme alle strutture del black metal tradizionale: privo di digressioni, duro, potente. Insomma, una macchina di distruzione suonata con fredda maestria e registrata – attenzione - con grande raffinatezza. Il risultato è effettivamente coraggioso, in quanto sono pochi i gruppi capaci di intessere atmosfere senza ricorrere ai suoni sporchi e impastati che caratterizzano tanti lavori dei primi ’90 (con annesse fotocopie) o a un’ipertrofico calcare di tastiere. Quindi un’innovazione, o se vogliamo, una diversificazione anche ideologica che travolge i “canoni” di tanto black minimale (e che potremmo definire in qualche modo cronologicamente padre di questo lavoro), spostando il feeling da un senso di soffocamento che permea tante pietre miliari (e annesse fotocopie) alla cruda, liscia e quasi geometrica perfezione che, richiama alla lontana quel sentimento di Sublime terribile su cui spesero tante parole i filosofi ottocenteschi.
Il disco è freddo, disincarnato. Non morto, se vitale intendiamo il semplice agire delle cose, ma pulsante un’energia torbida ed oppressa, una luccicanza suggerita dall’abile grafica della copertina (ad opera di Fabban degli Aborym), la cui fosforescente presenza trasuda progressivamente già nel Prologo, il Capitolo 0: “Demons in Me”, portando con se un potente senso di oppressione e disagio interiore. E’ forse una novità inserire una traccia strumentale a proemio del lavoro vero e proprio? No, assolutamente, anzi, è qualcosa di tanto consolidato che in tanti casi è divenuto un vero e proprio clichè. Chiariamo: di clichè possiamo parlare solo quando un gruppo abbraccia una “forma” che non comprende intrinsecamente, inserendosi semplicemente in una consuetudine. Non è questo il caso, in cui il prologo è indispensabile alla Climax costruita dagli Hate Profile. La chitarra, estraniante ed ipnotica, che potrei richiamare ad espressione musicale del Leopardi più amareggiato (“Ho perduto tutto: sono un tronco che sente e pena”) inserisce l’ascoltatore in quel mood canalizzante che sfocerà nella traccia successiva, Bleeding Black Heart, apripista della prima sezione, Fallen, la perdizione.
Le cose si mettono decisamente in chiaro. Stiamo parlando di un Black Metal veloce, tecnicamente ineccepibile. Lo screaming e gli strumenti sono molto curati, ed un plauso speciale va a Grom per la batteria: varia e potente, non cade mai nel banale (in cui si invischiano ahimè tanti batteristi estremi), pur evitando radicalmente qualsiasi innesto grooveggiante e restando nella durezza del bast e della cassa. Il testo è, se vogliamo, l’estrinsecazione furiosa del male quiescente dell’intro. Veils that Blind rispetto la precedente, è, grazie ai riff di chitarra, più “avvolgente”. La canzone si presenta come un vero e proprio Maelstrom, un vortice marino quasi dotato di una propria luciferina volontà. Il richiamo a Lucifero è obbligato in The Darkened Angel: una creatura di luce, esasperata nella propria trionfale superiorità, si eresse gloriosamente nutrendosi di un male oscuro e di un odio profondo, chiamandosi a sostenere un esempio additato e seguito dallo stesso narratore. Musicalmente parlando, si fa più presente il basso (che nel genere è uno strumento stupidamente sottovalutato) e più incisivo è anche l’uso dei synth, capaci di creare con i vocals un’ottima suggestione sonora, un flash immediato, senza indugi tastieristici. Chiude “Fallen” “The Day My Feathers Fell”. Non ho molto da dire su questa canzone. Segnalo, ancora una volta, complice l’eccellente pulizia di registrazione, il lavoro della batteria.
Passiamo alla sezione “The Vision”, aperta da “Empty Rooms”, che si introduce con la potente cavalcata della chitarra sulla doppia cassa. I ritmi rallentano, si fanno meditativi, cogitabondi, per poi riaccelerare. Da notare il Leit Motiv della chitarra, estremamente evocativo, e l’explicit “sacrale” dei Synth, che svestono l’ascoltatore della furia fino qui ascoltata (e vissuta). Sarà un richiamo fuori luogo, ma l’idea delle stanze vuote è affascinante ed ha colpito il sentimento di molti artisti. L’eco più forte (ma è un’opinione) è probabilmente in The Black House di Krieg… Giungiamo alla title Track, numero 6(66). Come si può notare, l’intera opera ruota intorno al numero 3, come una Divina Commedia musicale: nove sono le canzoni del disco, tre le fasi del progetto ed ecco, in posizione rilevata, The Khaos Hatefile. La canzone è tematicamente interessante, in quanto potremmo definirla naturale sbocco del percorso fino ad ora seguito. L’incipit è sublime: potente, aggressivo, una vera cavalcata delle valchirie. Peccato non averlo approfondito, preferendo una netta chiusura attraverso il blast. La cavalcata riprende ma la chiosa ha rotto l’incanto. A quanto pare la canzone è strutturata secondo il moto delle onde: una violenta apertura si infrange ciclicamente contro il muro della batteria. Terminata la prima parte, la canzone esplode, rabbiosa e diretta, mostrando un sapiente intreccio tra chitarra e batteria, alle quali si innesta con naturale durezza lo screaming per niente sforzato di Amon418.
Recall To Nothing segue quella struttura a vortice che abbiamo già trovato in precedenza, rallentandone però decisamente il flusso, che si fa più denso e thrasheggiante. Ci sono alcuni passaggi vocali che mi hanno riportato alla mente la storica “In league with Satan” dei Venom, curioso. Cori e synth, cavallo di battaglia e fiore all’occhiello della band, concludono il pezzo, introducendo con grande omogeneità Lapse of Perfection, basata esclusivamente sulla chitarra pulita e sul sintetizzatore. Lo strumento elettronico si svolge attraverso le dimensioni creando un’effetto psicologico unico. Le modulazioni, inizialmente alte, permettono alla mente di spaziare attraverso un infinito sintetico, che si restringe e si fa plumbeo con l’abbassarsi dei toni. Aumentano gli effetti acustici, l’universo si richiude su se stesso, lasciando una sola, fioca traccia che sfuma: il Kaos svanisce nel nulla dal quale fu generato.
Spero di poter toccare quanto prima l’evoluzione di un progetto che ritengo sia giusto giudicare con uno sguardo d’insieme al suo compimento. Quanto visto fin’ora lascia ben sperare: la mancanza di ingenuità tematico-musicali è sinonomo di grande autocoscienza, della quale aspettiamo impazienti i prossimi frutti. Spero che Amon418 divulghi sul proprio sito la parte concettuale del progetto, perché sarebbe interessante leggere i ragionamenti che ne hanno governato la nascita.
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