THE NEW YORK TIMES: "La più grande opera di cultura popolare americana nell'ultimo quarto di secolo."

La prima distorsione cognitiva è dovuta a un elementare quanto significativo concetto: la bramosia di sangue degli spettatori.

Ce ne siamo spesso resi conto. The Wire, prima, e The Shield e True Detective, poi. Ancora una volta, con Narcos, ci siamo trovati di fronte qualcosa che solo la finzione può capovolgere e dissacrare: la visione della morte. Scorsese ci ha insegnato che lo spargimento di sangue non ha assolutamente nulla di spettacolare. E' qualcosa di ancestrale, una sorta di rituale selvaggio, che puzza di oltretomba e dannazione, sporca il corpo e imputridisce l'anima. La celebrazione del delitto e, in special modo, i suoi preparativi, il più delle volte rappresentano non solo il culmine della storia ma, addirittura, l'unica ragion d'essere della narrazione nella sua interezza.

David Chase, deus ex machina dei Soprano, dopo aver distrutto ogni singola possibilità di colpo di scena per cinque stagioni di fila, nella sesta e ultima parte dello show decide di sferrare il colpo definitivo alla folla spossata e disillusa. Negli ultimi quindici minuti del penultimo episodio, scoppia finalmente la tanto agognata guerra tra le bande di New York e del New Jersey. I sicari di Phil Leotardo crivellano l'auto con dentro Silvio Dante e Patsy Parisi nel parcheggio del night club gestito dalla cosca Soprano. Durante la fuga tagliano la strada a un motociclista che cade e viene travolto dalle automobili in transito. Il capannello di gente che si era accumulato fuori dal locale, dopo aver assistito alla sparatoria, fugge in preda al panico.

Quelli, siamo noi...

I Soprano resta l'opera omnia della Televisione, lo show per antonomasia, il più rivoluzionario e imperfetto tra i romanzi. Già, perché I Soprano è come un romanzo, "The greatest and most violent American novel".

Prima e più di Lost, di Breaking Bad e di Game of Thrones, sopra a tutto e a tutti, dove l'aria è rarefatta e non c'è spazio che per gli dei maledetti, più su del motociclistico supersplatter criminogeno mescolato al Re Lear e al Macbeth di Shakespeare, i Sons Of Anarchy di quel Kurt Sutter che invano ha tentato di fuggire dall'ombra tentacolare della stoica costruzione narrativa di David Chase, ancora più su della insipida e monocorde Gomorra, fiction rumorosa e appariscente, scarabbocchiata su una carta sporca e inutile come un buco di culo sulla nuca.

Non occorre una guida per capire I Soprano, basta guardare episodi simbolici e ultra-violenti come Whoever Do This e University, gli iconici momenti di The Long Term Parking o l'ipocrisia ordinaria e la bestialità domestica di Soprano Home Movies, bisogna seguire con attenzione una serie che rivela nuovi particolari e inimmaginabili risoluzioni a ogni nuova visione, come se tutto si modificasse autonomamente, di volta in volta.

Questa è un'opera che non andrebbe persa per nessuna ragione al mondo, anche a costo di saltare il lavoro, arrivare in ritardo al proprio matrimonio, o al proprio funerale. Perché non è soltanto mafia come mai l'avevamo vista narrare, bensì un incastro di vita delinquenziale e quotidiana più vero del vero, più reale della realtà, un romanzo di formazione banditesca, il grande romanzo americano che tutti aspettavamo su carta, e che invece è passato in televisione.

L'immenso showrunner David Chase scandaglia le dinamiche sociali della bassa manovalanza del crimine organizzato esponendole sin nei minimi dettagli: una discesa verso l'inferno che non finisce nemmeno all'ultima puntata. Assistiamo alla definizione graduale e precisa dell'underground metropolitano, il sottosuolo postmoderno alimentato dalla droga, dal gioco di azzardo e da qualsiasi altro racket capace di smuovere grosse quantità di denaro, la milionaria conservazione dell'impero del marciapiede, ma con la paranoia costante della sicurezza della famiglia e di una vita apparentemente normale, il filtro distorto di una realtà allucinata che conduce alle porte di una efferata profondità dove tutto è dilatato, estremizzato, portato alle più nere conseguenze.

Nonostante il prematuro addio del gigante James Gandolfini, siamo indotti a credere che Tony Soprano sia vivo, lì, da qualche parte, tra il New Jersey e Miami, a New York come a Los Angeles, o nascosto in una casa spoglia, con la mitragliatrice AR-10 ricevuta il giorno del 47esimo compleanno, ha paura di uscire, il timore che l'FBI possa sfondare la porta e trascinarlo via in manette per condannarlo all'ergastolo, o il terrore che qualcuno gli spari in testa, senza vederne il volto, senza sapere nemmeno uno dei tanti, troppi perché.

Dopo il sangue, il sudore, la carne e il piombo, costringiamo noi stessi a credere che Tony Soprano sia dentro ciascuno di noi, forse è proprio così. E siamo tutti morti...

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