Facciamo due passi a ritroso... i Korn: ovvero, Head!

Nessuno se ne abbia a male, abbiamo amato il basso scorticato di Fieldy, come la violenza alle pelli di Silveria, il carisma di Jonathan Davis, il muro sonoro di Munky; ma non è un caso se dalla dipartita di Head i Korn non siano più riusciti a cavar fuori uno straccio di idea decente negli ultimi album. Di più, complice anche l'abbandono di Silveria, il gruppo si avvale adesso nelle performances live di uno stuolo di musicisti senz'altro di valore, ma che stravolgono brani storici che tutti eravamo felici di riconoscere sin dalle prime note. Cos'è successo? Cos'è che adesso ai Korn manca come il pane? Semplicemente Head. Punto. La mente sonora, colui che riusciva a mettere in musica gli incubi di Jonathan Davis e di un'intera generazione. La chitarra di sinistra e, perdonatemi il gioco di parole, la chitarra "sinistra", quella che sotto riffoni granitici arpeggiava note straniate e inquietanti, creando suoni strani e a dissonanze claustrofobiche. Una  sensazione diffusa di malattia che pervadeva l'ascoltatore e che era, a tutti gli effetti, il marchio di fabbrica più riconoscibile di un gruppo la cui discografia ha spaziato dalla brutalità degli esordi alle rarefazioni di un album come "Untouchables".

Un'inquietudine, a questo punto si può dire, propria dell'uomo Brian Welch: un ragazzone americano letteralmente baciato dalla fortuna ma pienamente infelice. Narra infatti lo stesso Head nell'autobiografia "Save Me From Myself", di poco precedente l'album omonimo uscito nel settembre 2008 e qui oggetto di recensione, di come i soldi a palate, il successo planetario, stuoli di donne adoranti e fans in delirio lo gettassero sempre più nella schiavitù delle droghe, il meth in particolare, e ne compromettessero i rapporti umani. Ad un certo punto, infatti, qualcosa si rompe e Head vive un corto circuito. Abbandonato dalla moglie, con la responsabilità di una bambina che cresce canticchiando i versi sconci di "A.D.I.D.A.S.", Brian tocca il fondo e decide di svestire i panni di rockstar per riscoprirsi uomo e padre. Così nel febbraio 2005 abbandona i Korn per affidare la propria vita al Signore e, con l'aiuto della fede, intraprende il cammino di riabilitazione.

Ora, che gli americani siano inclini alla spettacolarizzazione della loro fede è risaputo, e le scelte successive di Head non esulano: il battesimo nel fiume Giordano, il tatuaggio di Cristo sulla mano destra, e versi dai Vangeli qua e là sul corpo. Mari di interviste su grandi networks e testate, ma anche la fondazione di un orfanotrofio col suo nome in India. Insomma, un percorso tutt' altro che intimista. Ma non  sta a noi giudicare o meno la bontà di scelte ad ogni modo coraggiose per un artista che avrebbe campato benissimo sulla sola rendita del nome Korn. Possiamo giudicare, questo si, il lato artistico della sua proposta, e i risultati sono oltre ogni più rosea aspettativa. E' bene dirlo subito, chi come il sottoscritto si aspettava musica religiosa ed educata dal pretino ultratatuato ha dovuto e dovrà ricredersi. "Save Me From Myself" è un cazzotto in pieno volto,  un lavoro a tratti rabbioso e feroce, dalle coordinate ben delineate. Partono le prime note di "L.O.V.E." e hai un colpo al cuore. Lo riconosci in un istante, pensi:"Cazzo questa è la chitarra di Head!!" (Ok, la chitarra dei Korn...) Un arpeggio da carillon fa da apristrada al riff portante, una vera e propria mazzata da parte dell'uomo che ha forgiato il nu-metal più di chiunque altro. Lacrime per quel senso di claustrofobia che ti pervade da subito e che pensavi non avresti più ascoltato. Non fai in tempo a riprenderti che vieni ipnotizzato da "Flush". (Una curiosità: è solo una mia impressione o il ritornello richiama anche a voi, per l'impostazione, quello di "Keravnos Kivernitos" dei greci Rotting Christ? Che il buon Head ascolti ancora cattivissimo black-metal?). Ad ogni modo, ogni pezzo bilancia egregiamente la pesantezza dei riffs e il disturbo di arpeggi tetri a fare da controcanto. Non è mia intenzione fare una disamina dell'album brano per brano, vi toglierei il piacere di scoprire da voi mille piacevoli sorprese... Si tenga presente che una dose massiccia di elettronica, ma usata sempre in maniera intelligente e chirurgica, dona all'album un senso di freddezza e angoscia solo raramente stemperato da aperture melodiche ("Loyalty", la title-track) piuttosto che  da cori di bambini ("Re-Bel") o tappetoni di tastiere ("Money").

Se dal punto di vista lirico "Save Me From Myself" è la trasposizione più breve dell'autobiografia omonima, da quello strettamente musicale qui navighiamo intorno alle acque dei korniani "Issues" e "Untouchables" (quest'ultimo da molti, frettolosamente, bistrattato), ovvero un nu-metal dalle fortissime venature dark, a tratti gotico, comunque maledettamente oscuro. Ma la sorpresa più grande è forse che alla voce troviamo proprio Head con risultati apprezzabili per quanto ancora, a volte, incerti in alcuni passaggi. Ma si tratta di un debutto: perdonabile. Head convince tanto nelle parti pulite quanto in quelle più tirate, ai limiti del growl (vedi "Die Religion Die") e scatta la curiosità di vedere se dal vivo se la caverà altrettanto bene. Ancora, è lo stesso Head a occuparsi di tutti i sintetizzatori e della produzione dell'album, davvero pulita e potente. Un'altra sorpresa, al basso e alla batteria troviamo rispettivamente niente meno che un certo Tony Levin e un certo Josh Freeze, mica pizza e fichi!! 

In conclusione, i brani sono davvero belli, anche a dispetto talvolta di una eccessiva lunghezza che rende tutt'altro che agevoli i primi ascolti. Dopo un po' l'album vi conquisterà inesorabilmente. Head adesso è un uomo e un artista maturo e conscio delle proprie possibilità, ma è anche, a dispetto della fede ritrovata, ancora molto incazzato. Buon per noi.

BENTORNATO HEAD. 

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