Sperimentale. Avanguardistico. Malato: "Sextant" (1973) rappresenta il massimo momento di espressione nella carriera di questo nerdone occhialuto con la fissa per la tecnologia, l'immenso e sempre avanti Herbie Hancock. Si tratta del suo lavoro più astratto e psichedelico; più o meno, e non solo per il vicino artwork, una sorta di upgrade del geniale Bitches Brew di Miles Davis, che evidentemente deve aver influenzato anche il suo talentuoso ex pianista, davvero monumentale nella trilogia fusion con la Mwandishi band (Crossings e Mwandishi gli altri), due complessi capolavori mistico-sperimentali, anche se non ai livelli dell'estremamente innovativo Sextant, che si spinge davvero oltre! 

Un disco semplicemente incatalogabile sebbene in parte vicino agli avanguardisti-concretisti dei sessanta, i primi esperimenti kraut, o al periodo elettrico dello stesso Miles, con cui l'allievo Herbie condivide l'arte dello sperimentare e di andare regolarmente alla ricerca di nuove direzioni. Il ruolo svolto da quest'ultimo nel vicino "On The Corner" si rivelerà inoltre fondamentale per lo sviluppo di una ben distinta, ma ancora poco visibile, componente funk/fusion all'interno del suo modo di vedere il jazz.

Nella formazione troviamo Herbie alle tastiere (piano, rhodes, clavinet, mellotron) supportato dal mai troppo incensato genio di Dr. Patrick Gleeson all'Arp 2600 (un lusso per l'epoca) [il suo ruolo sarà più che fondamentale), Bennie Maupin (che continuerà a collaborare anche nel successivo periodo jazz-funk e già anch'esso nel giro di Miles) ai fiati (sax soprano, ottavino, clarinetto basso) oltre che sporadicamente a supporto di Billy Hart (batterista) e Buck Clarke (percussionista) su kazoo e afuche (il sound di matrice indigena della band necessita ovviamente di numerose percussioni). Eddie Henderson (tromba, filicorno), Julian Priester (trombone, campanaccio) e Buster Williams al basso (elettrico e acustico) completano la decerebro-formazione da Hancock reclutata per mettere a punto questo gioiellino di pura avanguardia.

L'indecifrabile traccia che apre l'opera, "Rain Dance", non è soltanto l'assoluto capolavoro di Sextant e dell'intera attività hancockiana in generale, bensì una delle più antisegnane composizioni sia per quanto riguarda il jazz che per l'elettronica in particolare. E se Davis con Bitches Brew, seppur altro lavoro incatalogabile, rimaneva ancora piuttosto ancorato alle radici jazz.. qui ne siamo assolutamente lontanissimi; si naviga piuttosto verso una forma di elettronica talmente libera e futurista da risultare ancora oggi difficilmente definibil-eguagliabile. Si puo affermare come Hancock e la sua cricca, Gleeson in primis, creino su questo brano una sorta di "minimal-techno-jazz" [!!] assolutamente avanti per il 1973 [millenovecentosettantatre].

Questo allucinante frammento si presenta con un assurda introduzione visionario-spaziale, sorretta da effetti psichedelici e blips subacquei in continua evoluzione (in realtà note provenienti dall'arp 2600 di Gleeson) che non possono non ricordare quanto Hawtin & co faranno nella techno minimale una ventina d'anni a seguire (persino il ritmo in 4/4 con batteria dritta e il basso di Williams in primissimo piano fanno pensare a una produzione da M_nus, Trapez et similia). La tromba di Henderson, svolge un ruolo di "effetto", più che armonico, non fa che completare il tappeto minimale (che via via diventa sempre più pieno e malato) divenendo così uno dei tanti elementi atmosferici di sfondo; Williams giganteggia al basso, modellando linee cupe e psichedeliche, e quando gli subentra Hancock, lanciandosi nel suo psicotico solo di rhodes, siamo al limite della schizofrenia sonora.

Intorno ad 1/3 del brano il tutto si riequilibria tramutandosi in una sorta di ambient cosmica: pausa con assolo di basso da parte di Buster Williams, via via accompagnato dal solito ritmo sintetico-metallico di Gleeson, che si fa sempre più presente fino a lasciar dissolvere la bassline e riprendendosi la scena trovando spunto per ulteriori diavolerie cibernetiche, laser primordiali, synth analogici iper processati, modulazioni LFO, risonanze, note fluttuanti in un vorticoso marasma elettro-paranoico degno di Mort Garson e Terry Riley! Non vi è dubbio, è ritornato il bombardamento fusion. La chiusura è pura elettricità: un festival di sintetizzatori dove Herbie e Gleeson fanno il bello e cattivo tempo con intrecci folli e visionari, ma coadiuvati perfettamente dal lavoro, certo limitato, ma incredibilmente funzionale di Hart, che quando raramente interviene lo fa con un drumming selvaggio adattissimo al clima drogato e poliritmico della traccia.

In nove minuti di pura anarchica sperimentazione i nostri anticipano techno, minimal, l'ambient-techno (ma anche la cosiddetta idm) dei novanta/duemila: provate ad esempio ad ascoltare il lavoro di Billy Hart sugli hi-hat e quello al basso di Williams.. vedrete se non è il caso di pensare a certo simil-jazz-elettronico della Ninja Tune.. lo stesso Supermodified di Amon Tobin. "Rain Dance" da sola vale l'acquisto del disco, ma prima che vi stanchiate di ripeterla sappiate che al suo interno vi sono altre due gemme assolutamente non di minor rilevanza, sebbene, si fa per dire, più accessibili dell'irraggiungibile avvio.

"Hidden Shadows" è il secondo brano: all'apparenza si tratta di una jam jazz-funk altamente grooveggiante e vicina a quanto sentito su "Fat Albert Rotunda" di quattro anni prima. Magari anche ispirato a quel "On the Corner" a cui il nostro stava collaborando, ma se si lascia andare e si analizza nel dettaglio anche qui si possono trovare geniali intuizioni e sperimentazione in notevoli quantità. Ad esempio la ritmica principale "steppata" con colpo di rullante secco e brevi cimbali di fondo anticipa in parte il classico dub; sullo sfondo alienante rumoristica stockhauseniana e gli archi, ora futuristici ora quasi orientali, di Herbie, impegnatissimo al mellotron a creare ancora una volta quell'atmosfera deviata e senza alcuna precisa direzione terrena che sarà tipica della formazione; mondi lontani e futuri, territori alieni irraggiungibili se non attraverso la guida del saggio Hancock! Come da titolo l'arrangiamento è ombroso e cupo, quasi noir quando si fa sentire finalmente il fumoso trombone di Julian Priester, sorretto sempre precisamente da un Clarke molto attivo su bongo e congas, e da Hancock che contrappunta parecchio con mellotron progreggiante e clavinet multieffettato

Come si legge tra le righe è la ritmica, a metà strada tra africa e marte, l'elemento protagonista di Hidden Shadows, Billy Hart ogni tanto sembra andare fuori di senno e se ne esce con tagli impazziti. E' già metà brano quando Herbie tira fuori uno dei suoi assoli allucinati al piano; Patrick Gleeson sempre più infernale al suo Arp 2600 sembra far di tutto per disturbare la bellezza del maestoso solo: ne viene fuori un connubio tra follia noise e pace fusion (presente "In a Silent Way"?) davvero pazzesco. Il finale è affidato al flauto di Maupin, che in un outro di nuovo funkeggiante (come del resto l'ingannevole avvio) cerca di farsi spazio tra gli inaspettati break schizoidi di Hart e i meravigliosamente urticanti contrappunti spaziali di Gleeson. Stupefacente.

"Hornets" è la meno sperimentale delle tre tracce, almeno nelle prime battute. Il lato fusion è però più accentuato, e Maupin, Henderson e Priester troveranno ampio spazio ai loro rispettivi fiati, improvvisando riff primitivi su di una classica ritmica fusion completata dal suono ripetitivo delle afuche e i soliti interventi insani al sintetizzatore. Buster funkeggia al basso, Priester è un iradiddio, Maupin domina al Kazoo (cristo, sembra una papera sgozzata) e intanto il brano sale sempre di più sia come intensità che velocità.. sempre di più...sempre di più...sempre di più... fino a diventare un devastante ciclone su cui fiati stolti, ritmi dissennati ed elettronica random si susseguono in un trascinante psicho-caos dove non si intravede via d'uscita! Più semplicemente Hornets riprende il sound di Bitches Brew moltiplicandolo per dieci: Hancock interviene soprattutto sul finale al fender rhodes: classico solo stralunato, classico drumming da paura del fattissimo Billy Hart e chiaramente solito pandemonio di sax e trombe che non si riesce a capire dove cazzo stiano andando.

Un ascolto certo non facile, complesso, cerebrale, incredibilmente avanti e ancora attualissimo, consigliato sia a tutti coloro che hanno apprezzato i "Bitches Brew", i "I Sing the Body Electric", i "Live-Evil".. ma soprattutto a chi nella musica predilige ricerca e sperimentazione.

E qui ne troverete parecchia. 

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