Il cinema è un'arte che continua ad evolversi, cambia continuamente pelle, mutandosi sottoforma di spirali ininterrotte che assumono nuove forme, immagini e riferimenti. In particolare il cinema di genere e in particolare l'horror, un genere più volte sottovalutato, ma uno dei più influenti, arrivando persino a contagiare il melodramma (lo splendido "La Mosca" di Cronenberg, ne è un esempio: un folle mix di horror e storia romantica, ma anche "Audition" di Takashi Miike e molti altri) e la commedia ("The Quiet Family", "Happiness Of The Katakuris", "Wild Zero").

Partendo soprattutto dagli Stati Uniti e dall'Italia, con la forma dello splatter più esplicito, questo genere ha saputo influenzare persino i metodi di fare cinema di altre culture e nazioni (si pensi soprattutto alla nascente scena horror belga, più propensa al cinema d'autore e l'inedita rinascita cilena del terrore). Da qualche anno, però, il genere horror è stato ampliato e mostrato dall'Oriente: una vera e propria esplosione di film, tra capolavori e operette scialbe e piatte. Tutto cominciò con l'incredibile successo di questo "Ringu", sebbene il cinema horror orientale inizi ben prima, a causa delle kaidan-eiga, le storie folk di spettri giapponesi. Già negli anni '60 comparvero i primi film horror giapponesi e non, tra cui l'incredibile "Onibaba", proseguendo con gli anni a proporre storie di fascino psichedelico ("Hausu", un capolavoro in fatto di visionarietà e di trovate originali) e veri e propri plagi del cinema splatter occidentale (la serie altalenante "Evil Dead Trap"), arrivando persino con il confine dello snuff (la serie "Guinea Pig", che sconvolse addirittura l'FBI, che temeva che le torture subite da una ragazza non fossero esattamente finzione.

Eppure, dopo oltre trent'anni di radici di storie spettrali e terrorizzanti, il pubblico occidentale si accorse di questa nuova tendenza solo con "Ringu", nel 1998.

Tratto dal meraviglioso libro di Koji Suzuki, il film ripercorre l'ormai storica trama della videocassetta assassina che colpisce di infarto chiunque ne prenda visione dopo una settimana. Ad indagare è la giornalista Asakawa (nel libro, invece, il protagonista era un uomo), dopo la scomparsa di sua nipote, aiutata dall'ex-marito.

Ma a differenza dell'ormai celebre remake americano, il "Ringu" Nakataniano è una riuscita combinazione di elementi antichi ed ipermoderni, tradizione e tecnologia. Lo spunto trae origini dalla cultura del Giappone, in ogni sua essenza, legata al rapporto tra spiriti e viventi. Secondo lo shintoismo, la religione più praticata dai Giapponesi, il mondo dei vivi è circondato da un mondo parlallelo ed invisibile, che in qualche modo riesce ad influenzarlo.

Come ha affermato lo stesso Nakata, la differenza tra horror orientale ed occidentale sia proprio nella cultura e nella religione: l'horror occidentale spesso mostra la lotta tra il bene e il male, derivata dal cristianesimo, religione monoteista, mentre quello orientale si basa sul rapporto tra vivi e morti.

Tema che ricorre in maniera molto eclatante in questo piccolo cult, le cui atmosfere sono fortemente paludose ed ancestrali, dimostrando quanto siano importanti le radici di un popolo per trarne un film. L'ambizione di Nakata, sembra però andare oltre: cerca di installare nello spettatore la paura dell'ignoto, il senso di spaesamento di fronte all'ignoto (come la morte, una cosa che non conosciamo ma di cui nutriamo terrore).

Siamo lontani dall'idea di terrore sottoforma di immagini disturbanti e dall'alto contenuto sanguinolento (lo splatter), l'origine della paura qui è dovuta soprattutto a presenze che appaiono e svaniscono, a uno stupefacente commento musicale (di Kenji Kawai, autore delle musiche di "Ghost In The Shell" e "Dark Water"), a momvimenti di macchina da presa lenti ed avvolgenti...

Lo stile registico è subito riconoscibile e piace proprio per la sua essenza pura ed angosciante.

Il film, per tanto, del canto suo non fa paura, eppure lascia quell'inquietudine stramba e angosciosa che ti affligge e che non ti molla più. Gli attori sono superbi (a cominciare dalla protagonista) ed immedesimarsi con i personaggi che interpretano è semplice, ma anche sconvolgente.

Oltre alla malefica videotape (che qui assume un senso, non come nel remake in cui gran parte delle immagini non hanno un senso e non sono collegate alle vicende di Samara), il simbolo di "Ringu" è il pozzo: un luogo nel quale la propria anima, la propria identità e la propria vita vengono a meno, esi fanno naufragare. Un simbolo di morte, ma non solo: è anche la metafora dell'inconscio umano, che fuoriesce dalle coordinate ordinarie e permette l'accesso a dimensioni terrificanti.

Un altro forte simbolo di quest'opera è il fantasma stesso, Sadako, la ragazzina vestita di bianco con i capelli a coprirle il viso spaventoso e senza dita diverrà una vera e propria icona del cinema horror, influenzando molti dei film d'orrore posteriori a "Ringu", non solo orientali (pensiamo allo spagnolo "Fragile"). Lei è una vittima, una ragazzina detestata da tutti per le sue capacità paranormali, in grado di farla uccidere con il pensiero, ma soprattutto è vittima dell'acqua salmastra del pozzo. L'acqua, l'elemento fondamentale del cinema di Nakata (che tornerà in "Dark Water"), un simbolo del male, soprattutto per il Giappone, un arcipelago che si trova spesso a lottare con maremoti e tifoni. Un male da cui con il tempo hanno saputo domare, ma che dona ancora scompiglio e terrore.

Ma "Ringu" non è un film da vedere semplicemente per la sua importanza storica, per l'influenza di film successivi o per l'abilità di comprendere storia e geografia nipponica in un horror, ma semplicemente perché inquieta, angoscia e non lascia scampo.

Ed allora cosa si vuole di più da un horror?

Carico i commenti...  con calma