Kaibutsu, mostro in giapponese, è il titolo originale del nuovo film del maestro Kore'eda. Ma chi è, questo mostro? Il maestro Hori, il ragazzino Minato, sua madre Sakura, la preside, i compagni? Niente può essere dato per scontato in questo lavoro tripartito, che vede gli stessi fatti (su per giù) ripetersi da tre punti di vista differenti: quello della madre, quello del maestro e infine quello del giovane studente protagonista.

Progressivamente, ci si avvicina sempre più a una vera comprensione delle vicende, che riguardano sostanzialmente il rapporto tra compagni di scuola e quello tra studenti e docenti. I fraintendimenti sono ovunque in una società così rigida come quella giapponese, dove la forma e l'apparenza sembrano predominare sulla sostanza, sulla verità delle cose.

Con l'emergere di questi fraintendimenti (Minato è bullizzato o bullo? Il maestro è davvero manesco o vittima di un complotto?), viene a galla anche tutta la superficialità con cui gli adulti pensano di comprendere i ragazzi. Sostanzialmente, partono con alcune idee e leggono i fatti che si susseguono solo come elementi a rinforzo delle loro tesi, non curandosi di sfumature e dubbi. Classicamente, quando ci si innamora di un'idea si selezionano solo quei fatti che giungono a sostegno di essa.

Lo fa la madre, lo fa il maestro. Un'incomprensione che è nelle immagini e nelle parole. Minato e i suoi coetanei raramente vengono inquadrati in viso, nelle prime due parti, gli sguardi degli adulti e quelli dei ragazzi non si incontrano praticamente mai. Una chiusura che è anche nei dialoghi, sempre deficitari o innaturali: la madre protesta con la scuola ma ottiene risposte preimpostate, il maestro vorrebbe dire la verità (o meglio, la sua verità) alla madre, ma viene costantemente stoppato e censurato dai colleghi, lo stesso Minato non può esprimersi, non può dire i suoi veri sentimenti perché la società lo condannerebbe all'infelicità. E quindi mente.

Distanze, silenzi, menzogne: la vita diventa una sfinge incomprensibile, azioni e reazioni non si corrispondono più, fino a giungere a una perdita di senso, uno smarrimento dei significati e della loro tenuta razionale. Sembra che il ragazzino faccia cose assurde, ma solo perché la madre (e il maestro) non conoscono davvero i suoi sentimenti, le sue abitudini, oppure vedono solo una parte dei fatti e pensano di poter giungere facilmente a una conclusione.

Quando invece entriamo nel mondo dei ragazzi, tutto cambia. Da freddo e ostile tutto si fa vivido, verdeggiante. E il senso torna a essere pieno, ogni cosa ha una sua logica, anche le azioni che possono apparire più turpi sono in verità meccanismi di (auto)difesa, processi tutt'altro che irrazionali legati alle dinamiche di gruppo (non facili) insite in una classe di scuola.

Una gran bella lezione da parte del maestro Kore'eda, che forse paga un poco il dazio di una prima parte molto irrigidita (per forza di cose, vista la trama) sul mondo freddo degli adulti. È tuttavia impossibile non restare ammirati di fronte alla gestione tripartita delle vicende, qui sì che il tempo “frantumato” ha delle forti motivazioni diegetiche e tematiche, non come in alcuni film recenti che volevano solo rendere complicate delle storie banali.

Il tempo “ciclico” ci dice tutta la difficoltà nello stabilire una verità sola, soprattutto in una società così formale come quella giapponese. Prima di giudicare e denunciare, allora, forse sarebbe meglio fermarsi un po' a riflettere, a comunicare, cercando di capire le persone intorno. Un film che meriterebbe una visione da parte di qualsiasi genitore o insegnante.

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