Nel 1965, anno di uscita di “Song For My Father” nel mondo del Jazz c’erano già state delle rivoluzioni tali da rimanere attoniti. Come schegge impazzite da un proiettile che si disintegra in mille direzioni divergenti erano schizzati via il free jazz, il post-bop, il modale, la third stream e tanto altro aprendo un ventaglio di opzioni, possibilità, eventualità, occasioni. Era l’ultima età dell’oro nel Jazz, un’irripetibile epopea durata lo spazio di un lustro, forse due, in un deflagrare di talenti, geni e cialtroni.

Lontano da qualsivoglia frangia rivoluzionaria, ma anzi ancorato alle proprie radici Capoverdiane ed al tipo di Jazz che aveva contribuito fortemente a sviluppare (nei Jazz Messengers) Horace Silver tira fuori dal cappello un capolavoro di buon vecchio Hard Bop da leccarsi i baffi realizzato tra il 1963 e il 1964 in parte con la band che stava sfasciando e in parte con quella che stava formando (in cui figurano Joe Henderson e Carmell Jones). Tutto l’album si distingue per una qualità compositiva eccelsa, frutto della vena squisitamente fertile del suo autore, e per una magnifica qualità esecutiva in virtù di assoli ricchi di inventiva melodica degli straordinari Junior Cook e Blue Mitchell da una parte e Joe Henderson e Carmell Jones dall’altra, che ne fanno un’opera irrinunciabile per ogni amante dell’ottimo Jazz targato Blue note.

Horace Silver ha un tocco nitido, denso e brillante, che sprigiona folgoranti illuminazioni blues, grappoli di note corpose, intense; un tocco funky come nessun altro nel mondo del Jazz. Tra i brani si ricordano lo stupendo “The Kicker” capolavoro interpretato in una versione mirabolante e tremendamente ispirata, con un Joe Henderson in forma smagliante a regalare uno degli assoli più compiuti della sua carriera. Rimarchevole il ritmo tropicale di “Que Pasa?” dal retrogusto latino e la bossanova di “Song For My Father” grande standard, celeberrimo tema più e più volte citato negli anni a venire, persino espressamente copiato (Steely Dan). In mezzo a tanto ben di Dio Silver riesce anche ad infilare la ballata perfetta: “Lonely Woman” è un pezzo straordinario, un blues memore della lezione di Bud Powell, una pioggia di note deliziose in un alternanza tra sospiri e silenzi, accordi discendenti e pause, contrappuntate da contrabbasso e batteria appena accennati. “Calcutta Cutie” altro masterpiece con i suoi raddoppi di tempo e frenate improvvise, è forse la migliore prestazione di Silver, ispiratissimo e maledettamente catchy.

“Song For My Father” è un album da avere se non lo si ha, da riascoltare se sta lì, magari già da un po’, a mangiare polvere. Da rimettere su ancora se si è ascoltata l'ultima nota proprio un minuto fa. E’ un disco di meraviglioso Mainstream Jazz, a cui il tempo ha già fatto il dono più grande: l’immortalità.

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