Gli anni cinquanta e sessanta hanno prodotto tonnellate di ottimo jazz. Con in giro personaggi come Miles, Coltrane, Herbie Hancock in fondo non si capisce come avrebbe potuto essere altrimenti. E quindi finisce che musicisti più che degni vengono un po' dimenticati, prendiamo per esempio Horace Silver.

Pianista melodicamente e pure armonicamente abilissimo, con una naturale vena funky capace di fare ballare pure i sassi. Ascoltatevi la title track "Song for my father", a mio parere uno dei pezzi jazz più incantevoli mai scritti.
A quanto pare una delle influenze chiave di questo pianista è stata la musica folk dell'isola di Capo Verde, tramandata a lui dal padre, di origine portoghese. Che per me rimane tra parentesi un'autentica curiosità, visto che pure Capossela ha confessato di essere un fan della "Morna Capoverdiana", come la chiama lui. Peccato che non si trovino facilmente in giro raccolte. Se qualcuno ne conosce sarebbe bello che mettesse un post al riguardo.

Tornando al presente album, vi si respira un'aria latin-jazz-bossa particolarmente fresca e spumeggiante. Il pericolo del jazz è notoriamente di finire nell'assolo auto-compiaciuto che non va da nessuno parte, che ti dice soltanto che chi suona tiene una minchia tanta ma che non vuol dire niente, sono note messe a caso. Pericolo completamente schivato in questo piccolo capolavoro, caratterizzato a mio parere da uno squisito equilibrio tra composizione e improvvisazione (per un orecchio moderno forse spostato più verso la prima delle due). Insomma un bel disco che rilassa e che non addormenta, pieno di belle idee e di contaminazioni. Un vero peccato che venisse dimenticato.

Chiedo venia della brevità della recensione, ma le quattro banalità che potrei aggiungere penso poco renderebbero giustizia a questa musica.

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