"Dolori - il Dr Jones mi fa un prelievo di sangue - bagno - dolori - coperta elettrica - visita di AEPG". Sono le ultime parole scritte da H. P. Lovecraft l'11 marzo 1937 nel suo lucido, quasi scientifico, diario di malattia. Lo scrittore sarebbe morto quattro giorni dopo, praticamente nell'anonimato, conosciuto solo da una ristretta cerchia di amici, molti dei quali incontrati solo per via epistolare. A ottant'anni di distanza, la situazione è straordinariamente cambiata: non solo Lovecraft è oggi un vero e proprio scrittore da culto (e chi più di lui potrebbe esserlo) nell'ambito degli appassionati di narrativa fantastica o sovrannaturale, ma il suo nome continua tenacemente a farsi strada anche a livello accademico, ambito in cui lo sdoganamento della sua opera è testimoniato dal moltiplicarsi delle tesi di laurea e dei corsi monografici (non in Italia, purtroppo) a lui dedicati nelle università e dall'approdo dei suoi scritti nei classici della Penguin.
La riscoperta postuma di uno scrittore, però, porta con sé nella maggior parte dei casi uno strascico di polemiche e controversie, e nel caso di Lovecraft il coro dei detrattori è particolarmente agguerrito, spesso neanche a torto. Il suo stile volutamente antiquato, l'incapacità di agire dei protagonisti dei suoi racconti, la bizzarria dei mostri che popolano il suo immaginario, l'assenza quasi totale nel suo corpus letterario di alcune importanti prospettive (quella femminile, ad esempio, o anche le dinamiche sessuali) hanno fatto mettere in dubbio a più di un illustre lettore la reale qualità dell'opera del "solitario di Providence", e il caso di "The Dreams in the Witch House" è a questo proposito addirittura paradigmatico.
Di fatto, il racconto sembra non piacere neanche ai suoi più devoti studiosi. S. T. Joshi, in particolare, attualmente l'editore più autorevole dell'opera lovecraftiana, lo trova pieno di contraddizioni, vuoti narrativi ed ingenuità varie; dal canto suo, la signora della letteratura fantastica, Ursula Le Guin, scriveva a proposito del racconto che "Lovecraft ci appare come un coniglio che si dimena nelle fauci del proprio inconscio".
Personalmente, invece, voglio riconoscere a "The Dreams in the Witch House" lo status di capolavoro senza "se" e senza "ma", pur nella coscienza dei suoi molti difetti, proprio come reazione emotiva, per la necessità di vedere riscattata uno scritto di una tale potenza immaginifica da non temere rivali. La sensazione è che molti dei critici di Lovecraft si relazionino alla sua opera cercando di valutare se lo scrittore si adatti o meno ad un loro modello di autore, senza in realtà tentare di abbandonarsi veramente alla sua proposta letteraria. Ursula Le Guin, per esempio, ha pienamente ragione, ma che cosa se ne farebbe il lettore di "The Dreams..." della razionalità e della logica davanti ad un racconto dove, in maniera del tutto inedita (soprattutto per gli anni in cui è stato scritto), fisica relativistica e stregoneria si incontrano e si fondono? Perché Walter Gilman, protagonista del racconto, che si ritrova ad abitare una stanza che si rivela in realtà un diabolico tesseract, dovrebbe mostrarsi lucido e in grado di trovare una soluzione alla minaccia che incombe sulla sua vita? Perché ci dovrebbe essere data una spiegazione coerente all'abbinamento fra viaggi interdimensionali e il rapimento e sacrificio di bambini ad immonde divinità?
La drammatica vicenda di Walter Gilman, il suo incontro sconvolgente con la strega Keziah Mason, il suo famiglio Brown Jenkin (straordinario e quantomai geniale ibrido fra ratto ed essere umano) e Nyarlathotep, il Caos Strisciante, il suo essere sballottato fra diverse dimensioni e abissi cosmici, è una delle più vivaci rappresentazioni di un orrore incomprensibile, impenetrabile, che sommerge totalmente le sue vittime. Gilman, il matematico, può solo comprenderne la dimensione più razionale, e cioè l'uso diretto nella realtà di principi matematici e fisici avanzatissimi sotto forma di sortilegi e formule magiche, ma il fine ultimo della sua vicenda non potrà mai afferrarlo. Il male, in questo racconto così come in altri di Lovecraft, è una categoria fine a se stessa, per la quale gli uomini sono dei burattini destinati all'ignoranza; di qui l'accumulo di fatti e immagini senza capo né coda, capaci solo di sconvolgere, distruggere, provocare dolore e morte. E' questo il motivo per cui amo in particolare anche il finale del racconto, la parte forse più criticata, dove il matematico Gilman si ritrova a usare un crocifisso in una scena i cui colori ed il cui ritmo sembrano già ampiamente anticipare il montaggio dei film di Roger Corman e l'intero immaginario psichedelico: davanti all'orrore estremo all'uomo non rimane che aggrapparsi disperatamente a tutto ciò che potrebbe invece rappresentare una speranza. Si tratta, ovviamente, di un'illusione, e la parola finale spetterà a Brown Jenkin, facendoci intendere che Gilman non aveva neanche capito chi o cosa stesse al centro delle trame maligne nelle quali era rimasto invischiato.
Lovecraft, da parte sua, quel salto dimensionale l'ha compiuto proprio ottant'anni fa, lasciandoci fra le mani i frutti di un lavoro spesso disordinato e caotico come l'universo da lui concepito, su cui molti hanno speculato (e mangiato, verrebbe da dire), creando ancora più caos. Ma se c'è una cosa che i molti amanti della sua opera hanno imparato in questi anni è che ad essa bisogna abbandonarsi senza remore e preconcetti: i semi della follia (beh, Carpenter l'ha a suo tempo ben capito) sono tutti lì, pronti a germogliare e a disturbare le notti di chi sa ascoltare.
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