Hylnur Palmason, 40 anni tondi tondi, è un regista islandese da tenere d'occhio. Ha fatto poche cose, tutte belle, tra cui "Segreti nella nebbia" (2019) che prometteva bene. Certo, non era lecito aspettarsi un semi-capolavoro di lì a poco, ma "Godland" (2022, uscito in Italia il 5 gennaio 2023), in effetti, lo è. E lo è soprendentemente visto che si tratta di un film totalmente fuori dal tempo, un'opera che se fosse uscita negli anni '70 a firma Werner Herzog (di cui il nostro è da sempre estimatore, e che con "Godland" cita a piene mani) sarebbe considerato un cult assoluto alla pari di "Aguirre" o, meglio, "Fitzcarraldo".
Alla fine del XIX secolo un giovin pretino luterano viene spedito in Islanda, all'epoca remota regione (ed inospitale regione, direi) del regno di Danimarca. "Armato" solo di una macchina fotografica, di tanta buona volontà, e accettato l'incarico di supervisionare la costruzione di un edificio religioso, vedrà, in quell'immenso spazio fatto di ghiaccio, freddo, vento e tanta, troppa, luce, declinare la propria convinzione religiosa e metterà in discussione tutte le proprie certezze circa l'esistenza di Dio e il valore, alto e ultimo, della Fede.
In due ore e venti abbondanti di film, Palmason ci conduce per mano all'interno di un mondo talmente inospitale da risultare (forse) affascinante, alternando sequenze riflessive e lente, ad altre più movimentate e ricche di pathos (la sequenza dell'impossibilità di attraversare il corso d'acqua causa pioggia e la voglia comunque di riuscirci, sfidando la natura, e dunque Dio, è esemplare) in cui i dubbi del protagonista (che si fa accompagnare nel viaggio da una guida locale) sono, in soldoni, i dubbi che qualunque essere umano potrebbe avere, gettato in un luogo del genere, amplificati dal fatto che il nostro è un religioso. Palmason sembra dirci che, in fondo, credenti o meno, la natura potrebbe mettere in difficoltà chiunque, proprio a causa delle nostre debolezze (legittime) umane. E' come nel "Fitzcarraldo" di Herzog, la ricerca di qualcosa e il perdersi continuamente.
Girato in un formato anomalo per il cinema moderno (1,33:1, sostanzialmente lo schermo risulta quadrato) utilizza questo sistema di riprese al meglio possibile: gli uomini non escono quasi mai dalla scena, ma il loro stagliarsi contro laghi ghiacciati o lande semi-deserte fa in modo che alcune scene sembrino più quadri settecenteschi o ottocenteschi, epoca in cui si dibatteva (o almeno gli artisti erano soliti farlo) sulla piccolezza dell'essere umano inerme, indifeso, contro una natura di per sé raccontata come ostile ed inafferabile. Così come alcuni passaggi sembrano provenire dai romanzi tedeschi sempre di quell'epoca lì. Tra Goethe e Darwin, tra la scoperta di un mondo che si puo' non solo vedere bensì anche immortalare (la fotografia era nati da pochissimi anni), Palmason ci trasporta in un mondo tardo romantico che deve molto, cinematograficamente, al suddetto Herzog e ad alcune forme documentaristiche che provengono, ad esempio, dall' "Uomo di Aran" (1934) o da "Nanuk l'eschimese" (1922) di Flaherty.
Poi c'è chi ci ha visto Terence Malick e lo Scorsese di "Silence", ma è un film talmente pieno di bellezza e, paradossalmente, di vita che, credo, ognuno possa vederci ciò che vuole. Da recuperare a tutti i costi.
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