“Non esistono regole” (Michelle Yeoh)
Cosa abbia spinto i membri dell'Academy, sempre così passatisti, a regalare 7 Oscar a un film tanto innovativo quanto “giovane” (potrebbe essere che, superati i 30, potreste apprezzarlo meno, dico potreste perchè io a 40 l'ho trovato divertentissimo) e così complicato? Mistero. 7 Oscar pesantissimi, praticamente i principali: miglior film; miglior regia; miglior attrice protagonista; miglior attrice non protagonista; miglior attore non protagonista; miglior sceneggiatura originale; miglior montaggio. Ma pure 2 Golden Globe e una sbarcata di premi di qualsiasi tipo che hanno portato ad un totale di 21 trofei conquistati un'opera uscita alla chetichella negli Usa nel marzo del 2022 ed esplosa, sorprendentemente, qualche mese dopo arrivando ad incassare solo in patria 77,2 milioni di euro. In breve divenne un fenomeno di costume, e ne cominciarono a parlare tutti. Praticamente un instant cult movie come non se ne vedevano da tempo.
Raccontarne la trama è impossibile, anche a causa di spoiler inevitabili, visto il mix di colpi di scena che riserva la brillante sceneggiatura. In soldoni, una famiglia di cinesi stabilitasi in Usa, titolari di una lavanderia a gettoni, indebitati fino al collo, si reca all'ufficio delle tasse per tentare di sistemare le pendenze. Per quanto mi riguarda oltre è impossibile dire, nel senso che in breve scopriamo che l'intero film si basa sul concetto del multiverso, cioè esistono una serie infinita di pianeti e mondi in cui gli stessi tizi del primo universo, quello della lavanderia e delle tasse, si muovono in altri ambiti e in altri contesti. Ma se, ad esempio, in “Spiderman” (intesi gli ultimi cartoon usciti tra il 2018 e il 2023) i multiversi erano al massimo 3, e ognuno era caratterizzato da personaggi simili ma ben distinguibili, qui è l'opposto: ogni personaggio, nel suo multiverso, è sempre lui, a volte insegnante di kung-fu, a volte cuoco, altre volte ancora star del cinema, ma non cambiano faccia o psicologia. I loro incontri, e il film è sostanzialmente un continuo intersecarsi di mondi che si affastellano uno sull'altro, sono complessi e di difficile comprensione (in confronto “Inception” era una passeggiata di salute). Il ritmo poi è talmente vorticoso e senza tregua che a tratti risulta arduo comprendere al volo in quale multiverso siamo. Niente paura, basta un po' di attenzione, e si entra nel mood giusto ci si diverte un sacco e le due ore e un quarto di durata volano via leggere come un refolo d'aria primaverile.
Il punto è che, come dice la protagonista, non ci sono regole. I Daniels, che non sono parenti, ma sono due registi con il nome uguale, Daniel (Daniel Kwan, Daniel Scheinert) si divertono un mondo a dirigere un film che può tutto e in cui tutto è possibile. Il cinema non ha confini: loro vanno oltre. Cambiano continuamente il formato dell'immagine (dai 16:9 allo schermo panoramico), inventano soluzioni narrative triviali ma divertentissime (per passare da un universo all'altro ognuno ha i suoi metodi, tra cui, alcuni, quello di infilarsi dei monili nel sacro orifizio), e scandagliano tutti, ma proprio tutti, i generi cinematografici: il film è, a conti fatti, un fantasy, una commedia, un musical, un thriller, un dramma, e non si disdegna persino l'animazione, seppur fugacemente. C'è di tutto, dallo stile del wuxia film all'estetica del cinema orientale declinato all'americana; mondi in cui gli individui hanno imparato ad usare i piedi al posto delle mani in quanto quest'ultime sono troppo grosse e con le dita a forma di wurstel, a combattenti che prendono a schiaffi gli avversari con falli di gomma; da sassi che parlano, solitari, in un arido deserto (forse) americano a una serie di citazioni colte a tratti sorprendenti: non stupisce quella, “eretica”, di “2001: Odissea nello spazio”, ma lascia a bocca aperta quella da Terrence Malick e il concetto che stava alla base de “La vita è meravigliosa” di Frank Capra, nessuno è inutile, tutti viviamo per qualcosa. Non a caso, il finale è un inno al combattere per il bene e non per il male, per uccidere.
Alla fine sì, se vogliamo spolpare all'osso il concetto dell'opera è: problemi adolescenziali da risolvere tra figlia e mamma. Solo che al posto di risolverli come tutti, i Daniels si sono inventati l'idea del multiverso e di un cinema talmente libero e anarchico che in una produzione comunque di altissimo budget lascia interdetti. I due cominciarono a scrivere la sceneggiatura nel 2010 e solo nel 2018 il film venne messo in produzione, ma nel 2010 pensare ad un'opera di tale schiatta era onestamente impensabile. Ed è ispirato anche ad un videogioco, Everything, così che le accuse di alcuni critici tontoloni sul fatto che si tratti, più che di un film, di un videogame vanno a farsi friggere (se tutti i film ispirati, anche solo vagamente, ad un videogico fossero così ci sarebbe di che rallegrarsi).
Il cast, all star, è la, classica, ciliegina sulla torta: Michelle Yeoh, indimenticata protagonista de “La tigre e il dragone”, si sa, è un portento, e anche qui lo dimostra ampiamente, ma sono stupefacenti anche quelli che le ruotano attorno, a partire dal marito interpretato da Ke Huy Quan (era il bimbetto de “Indiana Jones e il tempio maledetto”) in forma smagliante, così come una divertita, truccatissima e cattivissima (ma fino ad un certo punto) Jamie Lee Curtis, un misto tra una vecchia zitella e un'acidissima lottatrice di arti marziali, che vinse il suo unico Oscar soffiandolo alla giovanissima Stephen Hsu che qui interpreta la cattiva di turno, in un poliedrico trasformismo di costumi e faccine.
La critica americana lo ha elogiato apertamente:
“un vortice di genere lussureggiante e anarchico" (The New York Times);
più tiepida la critica italiana, forse stordita da un eccesso di vorticosità tale e, loro sì, passatisti col capo rivolto all'indietro. Si legga in merito la recensione di Paolo Mereghetti (https://www.corriere.it/spettacoli/cinema-serie-tv/23_gennaio_29/01-spettacoli-apretxtcorriere-web-sezioni-84530034-9fc4-11ed-a89a-ab57ad67871c.shtml), acida, a suo modo.
Certo, nessun produttore voleva metterci soldi. Nessuno disposto a spendere per un film di suo, a spiegarlo, e forse leggerlo, incasinatissimo, scritto da due registi che avevano all'attivo solo un film, per giunta un flop epocale (“Swiss Army Man”, 2016). C'è voluta la A24 e la “garanzia” dei fratelli Russo (quelli di “Avengers Endgame”) per creare un capolavoro di fantasia e originalità che nell'asfittico panorama cinematografico degli ultimi spicca su (quasi) tutto nonostante l'idea del multiverso non sia di suo nuova. Ma che sia, e lo sostengono in molti, il film definitivo sull'argomento?
E ora, se permettete, piccola nota personale: ho inviato molte recensioni ultimamente, alcune scritte in epoche lontane e riviste e corrette, altre, come questa, nuove di zecca. D'ora in poi, causa pressanti impegni lavorativi non avrò più tempo per scrivere recensioni (specie poi se così lunghe), per cui per un po' passerò la mano. Grazie a coloro che mi hanno voluto, fin qui, leggere.
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