Consiglio questo testo sia a chi odia i Beatles, sia a chi dei Beatles pensa di sapere tutto.
L’autore è Ian MacDonald: compositore, direttore di una rivista musicale, e, quel che più conta, persona innamorata della musica.
Il pensiero dell’autore è chiaro sin dalle prime pagine - “I risultati dei Beatles sono stati splendidi” - ma, in tutto il testo, non difetterà mai della freddezza, del realismo e dell’equilibrio che caratterizzano i critici seri: non leggerete né deliranti celebrazioni e neppure le stroncature di chi si arrampica sugli specchi cercando di ridurre i Beatles a dei mediocri…
Rimarrete invece stupiti dall’analisi fatta su ogni canzone, dove sono elencati anche tutti gli strumenti. Questo libro è considerato, per questa ricchezza di informazioni, un manuale da consultazione, e non solo una gradevolissima e illuminante lettura.
Ovviamente non condivido tutto quello che MacDonald dice, come la sua troppo entusiasta celebrazione di “Can’t Buy Me Love” e quella eccessiva di “Penny Lane” (giudicata, da lui, alla pari con “Strawberry Fields”).
Nelle recensioni dei pezzi, l’autore non rinuncia a parlare dei cambiamenti in seno al gruppo e lo fa talvolta in modo acido, come quando, dopo il 1968, dice: “Erano passati i tempi in cui sudavano sette camicie per preparare le loro parti agli strumenti”. Tra le mille ragioni dello scioglimento, c ’è stato anche il senso di appagamento, e un realista come MacDonald lo lascia intuire.
Soprattutto, è memorabile la pagina in cui descrive le differenze fra gli stili di composizione di Lennon e McCartney. Parafrasando: “La musica di Lennon, anche se a volte ossessiva e aspra (cioè pochi accordi e qualche variante), raramente tradisce se stessa, e non scade mai, volontariamente, nel cattivo gusto. Invece, McCartney, che era capace di scrivere melodie tecnicamente perfette quasi per istinto, spesso faceva degenerare le sue composizioni in insulsi esercizi di stile”. Difficile non ammirare tale chiarezza mentale ed equilibrio.
Ma il libro ha altre ricchezze come l’introduzione, nella quale MacDonald fa un’analisi, senza esagerare bellissima, degli anni 60, e di come noi, volenti o nolenti, siamo tutti figli di quegli anni. Vi consiglio il libro anche solo per leggere l’introduzione; ne uscirete più consapevoli.
Si parla dell’esplodere del sesso, come piacere immediato da consumare, e dell’inizio del mito della “gratificazione immediata”, che oggi ha raggiunto livelli inquietanti.
Si parla anche del diffondersi della “cultura del telecomando”, che, come dice l’autore “ha distrutto il concetto di costanza, perché ci consente di cambiare ogni volta che una cosa ci annoia”.
C’è anche lo spazio per fare dell’ironia sui comunisti degli anni 60, oggi diventati borghesi direttori di banca.
Insomma, dietro questo autore, c’era qualcosa di più di un critico musicale. Ho usato il verbo “era” e l’ho fatto per un motivo. Quest’uomo così dotato dalla natura, era afflitto – purtroppo – da crisi depressive. Un mese fa, ho saputo che si è tolto la vita il 20 Agosto 2003.
Il suo vero nome era Ian MacCormick.
Questa recensione è un piccolo omaggio a un grand’uomo e a un grande libro.
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