Il sibilare del vento, un'aria di archi e fiati, fra il maestoso e il minaccioso, tratteggia un'altitudine ostile; rumori di passi che sdrucciolano sull'impervia parete rocciosa. “Nessun essere umano è stato lassù” ansima a denti stretti uno dei due; “ancora per poco” gli risponde quell'altro con una voce che sembra il doppiatore di Michael J. Fox. Poi il primo scivola e pare smusarsi sulle rocce. “Paura eh?” gli dice Michael J. Fox, ma gli risponde l'altro: “Io non ho paura di niente”.

Io invece ho paura ad arrivare al termine di “La Mano di Gloria”, timore di arrivarci senza che le palle mi si sbriciolino rovinosamente come le ginocchia del tipo che stava scalando la montagna. Anno 2012, dunque, terzo full-lenght per i genovesi Ianva, ma questa volta Mercy e la sua banda non sembrano fare centro, rei soprattutto di ripercorrere i consueti sentieri e quindi di non saper dissolvere le nebbie di un asfissiante senso di deja-vu che ammorba l'ascolto dal primo all'ultimo minuto di questo nuovo lavoro. Eppure l'idea di base era intrigante: dopo il tuffo nella storia più o meno recente del nostro paese (l'avventura fiumana romanzata nell'irriverente “Disobbedisco!”; gli ultimi settanta anni del “bel paese” ritratti impietosamente in “Italia: Ultimo Atto”), un concept ambientato in un futuro più o meno futuribile poteva essere un buon punto di partenza per una band che, al di là delle polemiche di ordine ideologico sollevate con i lavori precedenti, aveva saputo far parlare di sé grazie soprattutto ad una proposta ambiziosa quanto originale, se si pensa all'attuale panorama musicale tricolore: testi reazionari su un sopraffino tessuto orchestrale che era in grado di richiamare tanto la migliore tradizione cantautoriale italiana quanto il mood teso e drammatico tipico di un genere quale è il folk apocalittico, senza rinunciare ad un gusto pronunciato per ambientazioni squisitamente cinematografiche ereditato direttamente dai grandi autori delle celebri colonne sonore di italica fattura, Morricone su tutti.

Io non ho paura di niente” – un istante di silenzio: è appena trascorsa l'introduttiva “Tempus Destruendi” – irrompe la tromba solenne di Gianluca Virdis (protagonista per tutta la durata dell'album), si materializza “Il gusto della sfida”, epica cavalcata cantata da un oscuro De Andrè in salsa spaghetti-western. Trottano le percussioni, cavalcano le chitarre, sferzano le trombe: nel ritornello in tedesco di “Edelweiss” danno un supporto le voci grevi di Gerhard Hallstatt (Allerseelen) e Franck Machau (Orplid), a rimarcare un fil rouge che, nonostante le palesi differenze stilistiche, lega l'ensemble genovese ad altre formazioni europee che fanno della tradizione, del folclore e dell'identità nazionale la pietra fondante della loro proposta. Tutto sommato gli Ianva ci sono, c'è l'enfasi che da sempre li contraddistingue (loro croce e delizia), ci sono i leziosi arrangiamenti barocchi (altra croce ed altra delizia), come non mancano testi pomposi grondanti retorica ad ogni sillaba (come sopra): insomma, tutti gli ingredienti che hanno fatto amare/odiare la band permangono. Qualcosa tuttavia sembra non quadrare, complici senz'altro le scelte infelici compiute dietro al mixer: un lavoro di produzione, quello di “La Mano di Gloria”, che impasta i suoni (svilendo la resa sonora degli intrecci strumentali allestiti con la consueta perizia ed accuratezza) e che ovatta le voci (rendendo i testi di difficile comprensione in più di un frangente). Ma c'è altro che non va in “La Mano di Gloria”: in questo lavoro si avverte un generico calo di ispirazione (in particolare nella seconda metà), che certo non giova ad una proposta sopra le righe – e a livello lirico e a livello strumentale – quale è quella degli Ianva: per sua natura intrinseca, per ambizione ed obiettivi professati (in poche parole: risvegliare alla consapevolezza e spingere all'azione tramite l'arte), il collettivo genovese è irrimediabilmente condannato a sfornare o capolavori o lavori semplicemente mediocri: nessuna via di mezzo è possibile per una proposta musicale che, senza una buona scrittura ad animarla ed una rigorosa focalizzazione d'intenti a concretizzarla, diventa ridicola, grottesca, puerile, insopportabilmente pretenziosa, laddove in passato aveva saputo assumere i contorni della grandiosità.

“La Mano di Gloria”, per la cronaca, è il commento musicale al romanzo che porta lo stesso nome, scritto (ma non ancora pubblicato) dallo stesso Mercy; un concept fantastico che ci parla di un futuro prossimo, terribile quanto verosimile, incastonato fra l'appennino ligure e il Tirolo, fra l'Aspromonte e le campagne toscane: è l'Italia del 2029, teatro di oppressione e focolaio di rivolte, che tanto richiama la stagione della Resistenza. Il futuro immaginato da Mercy non è altro che l'esasperazione, tramite categorie novecentesche, delle criticità del presente (con una per niente velata critica alle tesi europeiste), da cui origina il plot: è infatti il default monetario del 2012 a condurre, attraverso una drammatica escalation di eventi, all'instaurarsi di un occulto regime totalitario, che vede al suo vertice il Combinat, un organo governativo sovranazionale, composto da élite di potere e banchieri, che tramite le leve economiche, finanziarie e militari opprime nella miseria e nel dolore i popoli dell'occidente. Ad opporsi a questo stato di cose, un uomo: Pietro Jorio, eroe romantico di marca dannunziana e dalla condotta estetizzante (“non ribellarti perchè è giusto, fallo perchè è bello”), chiamato a guidare la rivolta e a rompere il giogo degli spietati oppressori. Un'avventura che non si sottrae alla tentazione di impelagarsi, con qualche forzatura di troppo, nei risvolti di una stucchevole love-story.

Da evidenziare, da parte di Mercy, uno sforzo nel ricercare una dimensione ideologicamente trasversale, ma comunque coerente con la sua visione nostalgica ed anti-capitalista, popolando il suo racconto di eroi diversi e dal diverso background biografico ed ideologico (l'ex pubblicitario di successo, l'indignato Lothar Drusian; la bella Vittoria Cristaldi, vedova di un boss mafioso, mossa da vendetta per la morte del marito; l'anarchico deviato Fosco Pardini, animato da ideali di equità), un manipolo di irridenti che trova un'intima comunione nella dissidenza e nella lotta contro il nemico comune, una lotta che fa leva sull'arditismo di Jorio, bizzarro stratega del sogno, che intende celebrare la necessità dell'azione e dell'affermazione dell'individuo come antitesi alle ragioni bieche del potere e del vil denaro. La temerarietà, l'impresa disperata di Jorio (disperata perchè rivolta contro forze soverchianti), nonostante il tragico finale (ma che al contempo racchiude in sé il seme della riscossa), sono la scintilla che riporta l'azione e la rivolta nel cuore e nello spirito di un'epoca senza speranza: un invito ad osare contro l'inosabile, una lotta forse impossibile ma necessaria quale premessa per un nuovo inizio, un futuro che è la prova che anche il più folle dei sogni può fecondare un mondo, a patto che si sia disposti a sognarlo fino in fondo.

Il problema è che senza le indispensabili note presenti nel ricco booklet (estremamente curato anche da un punto di vista grafico) poco si capirebbe delle vicende narrate. Ma al di là che non riesco ad apprezzare fino in fondo una “forma d'arte” che necessiti di spiegazioni (poiché l'arte non deve essere spiegata, perchè nell'arte stessa giacciono le sue intrinseche ragioni), meno brillanti e meno incisivi, e più confusi e ridondanti (e artefatti e poveri di immagini veramente suggestive) sono i testi di Mercy, che evidentemente non riesce a declinare nel formato della canzone i contenuti esposti nel suo romanzo. Si finisce così per perdersi in un concept di cui non è possibile seguire il filo narrativo senza l'impiego di un'attenzione sovrumana: una narrazione che, oltre che appannata, appare inoltre sbilanciata nelle sue parti, se si considera che, su tredici tracce, le prime sei servono sostanzialmente a presentare i personaggi, mentre le ultime tre per descrivere i pensieri di Jorio appena prima e subito dopo la battaglia finale. Un concept dalla grande testa e dal culo pesante, potremmo dire, tenendo conto che gli episodi salienti della vicenda non sembrano essere adeguatamente valorizzati, schiacciati da un'eccessiva introduzione ed un finale altrettanto pomposo.

La foga narrativa di Mercy, ahimè, si ripercuote anche sulla dimensione strettamente musicale, decisamente sacrificata per fini espositivi, difficoltà che si traduce in una scarsa focalizzazione delle energie messe in campo in rapporto all'andamento del concept: le composizioni, seppur condite come consueto dalle gesta di ottimi musicisti, si perdono, una dopo l'altra, in passaggi prolissi, spesso molto simili fra loro, incapaci nella loro successione di creare un vero e proprio climax che rispecchi il naturale evolversi della trama. Il sound guadagna in marzialità, cosa comprensibile considerati i temi trattati, ma l'iniezione di una dose più massiccia di percussioni e l'adozione di un approccio ancora più epico che in passato, non imprimono la dovuta energia ai brani (per lo più ballate) che finiscono per suonare eccessivi in tutto ma al tempo stesso piatti, poco coinvolgenti, incapaci di regalare reali sussulti. Il concept non respira, non decolla: si salvano, a macchia di leopardo, proprio quegli episodi in cui si osa tentare qualcosa di diverso, come succede nella scanzonata “L'anarca”, una sbilenca marcetta a base di fisarmonica, con la bella prova di Mercy, richiamo palese ai canti popolari della tradizione anarchica; o negli umori medievaleggianti de “Le stelle e i falò” (cantata da una sempre brava Stefania T. D'Alterio, meno incisiva però negli altri due episodi ad essa affidati), o la coinvolgente title-track, momento cardine dell'opera (culmine concettuale in cui si spiega, seppur in modo eccessivemente didascalico, la natura e gli intenti del Combinat), escursione industriale assai lunga in cui primeggia il suggestivo recitato di G/Ab Svenym Volgar Dei Xacrestani (voce degli italiani black metaller Daviate Daemen) su ambientazioni martial/noise.

Tutto il resto è noia, ed arrivare al termine dei quasi settantaquattro minuti di “La Mano di Gloria”, come si diceva in principio, risulta infine un'impresa ben più ardua di quella compiuta dal coraggioso Pietro Jorio contro il mondo. Un mezzo passo falso, ma non un flop assoluto, questo terzo atto degli Ianva, che si spera possano fare meglio in futuro.

Il potenziale ovviamente c'è. La spocchia pure.

Carico i commenti... con calma