Altra mia occasionale escursione fuori dal prog per parlare dell’album di debutto di una band che ha goduto nell’ultimo periodo di un notevole successo, gli Imagine Dragons. Solitamente ho un approccio tendenzialmente scettico verso le band che godono di elevati passaggi radiofonici, dato che conosco bene il modo in cui la gente si rapporta con la musica e il modo in cui i media presentano la musica alla gente, dando spazio a cose spesso scadenti ed occultandone invece di ben più meritevoli; si va essenzialmente dal semplicemente discreto alla feccia totale, raramente si va veramente in alto… Ma almeno a quel discreto che c’è perché non dargli una possibilità? Senza ovviamente aspettarsi capolavori, ma perché no? Quando girava “Demons” chiaramente mi sembrava l’ennesimo brano semplice semplice da classifica, non spazzatura come diversa altra roba in giro ma nemmeno nulla di eclatante; e da lì già immaginavo di trovarmi di fronte all’ennesimo di quei gruppi da classifica tutto sommato passabile. Seguendo un amico che lo aveva in heavy rotation alla fine ho voluto ascoltare il disco.

“Night Visions” a dire il vero è praticamente una mezza raccolta, dato che la maggior parte dei brani sono comparsi in diversi EP usciti precedentemente. Come incipit posso semplicemente cominciare con una semplice premessa: è un buon album ma assolutamente non un capolavoro. Non lo dico per questione di gusti ma semplicemente perché bisogna essere obiettivi. Molti giudicano la musica semplicemente in base al fatto che sia più o meno piacevole all’ascolto o che sia più o meno ballabile o canticchiabile, o alcuni difendono l’artista in base al fatto che “ha venduto milioni di dischi”; trovo invece quest’atteggiamento (e lo dico senza troppe misure) piuttosto immaturo e perfino infantile, seppur molto comune. La musica è un intreccio di linee, trame, forme, strutture; è un’arte a 360 gradi e nell’arte la forma conta, e proprio nelle forme è giusto che venga valutata; bisogna analizzare l’approccio, il lavoro degli strumenti, la struttura dei pezzi, la funzione che ogni pezzo ha all’interno di un album, l’evoluzione di una band, la produzione, ecc… Troppo facile limitarsi a dire “mi piace” - “non mi piace”, parlare di musica non è roba da tutti… Poi alla fine piace quel che piace ma bisogna cercare di ammettere cosa è migliore o peggiore al di là dei gusti personali. Può piacere di più Justin Bieber ma non per questo è migliore di Mozart, che ad una valutazione oggettiva vince.

“Night Visions” è essenzialmente un disco orientato su sonorità pop-rock e soprattutto indie-rock che oggigiorno vanno piuttosto di moda; quindi non bisogna aspettarsi qualcosa di seriamente innovativo o rivoluzionario. Ciò che rende l’album apprezzabile è essenzialmente la buona varietà proposta; non c’è una canzone uguale all’altra e ospita volentieri al suo interno elementi elettronici, folk, pop ed arrangiamenti orchestrali. Tuttavia bisogna essere onesti ed ammettere che presenta un grosso difetto, la produzione: essa risulta essere non particolarmente brillante, spesso tende a soffermarsi troppo su voce e ritmo oscurando molti arrangiamenti interessanti mentre nei brani in cui gli arrangiamenti sono meglio valorizzati tende comunque a risultare un tantino strusciante, non proprio limpida. Sta di fatto che alcuni brani risultano più riusciti ed altri meno, anche se si lasciano ascoltare volentieri lo stesso.

Ma soffermiamoci su quelli meglio riusciti… Cito subito “Amsterdam” e “Hear Me” dove vengono messe in risalto soprattutto le chitarre; la prima risulta molto vicina ai Coldplay (il ritmo è all’incirca simile a quello di “Every Teardrop Is a Waterfall”), la seconda invece ricalca abbastanza fedelmente lo stile dei The Killers (anche nelle parti vocali). Molto buona anche “Tiptoe”, con i suoi tocchi di chitarra, i suoi suoni elettronici e la sua linea di basso molto presente. Un bel mandolino accompagna le strofe di “It’s Time”, la conclusiva “Nothing Left to Say” sfoggia elementi orchestrali uniti ad una melodia solare e potente e contiene una coda acustica indicata come ghost track. “Underdog” è invece un autentico gioiellino elettro-pop moderno, con passaggi di synth geniali, non particolarmente elaborati ma ben messi in evidenza; uno dei punti più alti del disco, suona moderna ed essenziale senza cadere nel banale.

A questi brani se ne affiancano altri sicuramente godibilissimi, contenenti sì anche spunti interessanti ma oggettivamente troppo penalizzati dalla produzione. “Radioactive” ad esempio ha interessanti riff in stile dubstep… ma perché non metterli in evidenza? Perché soffocarli sotto tonnellate di percussioni peraltro struscianti? “Demons” è ok nelle strofe, dalle note delicate, ma poi anche lì nel ritornello tutto viene soffocato da ritmo e voce. “Every Night” è una buona power ballad ma le parti di chitarra potrebbero essere valorizzate e quindi il brano risultare meno piatto. Il brano che forse più di tutti risulta penalizzato delle scelte produttive pur non essendo il brano peggio prodotto sembrerebbe essere “On Top of the World”: è un brano interessante se lo andiamo ad ascoltare bene, è un originale pop-folk con interessanti intrecci fra strumenti a corda, percussioni ed handclapping, ma tutti questi suoni sono decisamente poco udibili… darebbero forse fastidio all’ascoltatore random che accende la radio in macchina???

Questa esperienza di ascolto, che reputo comunque piacevole, mi ha chiarito ulteriormente le idee (ma già avevo le idee piuttosto chiare) su quella che è la mentalità che impera nell’ambito del mainstream: per essere grandi non importa che la tua musica sia ben suonata e di buona fattura e che abbia delle idee, bisogna semplicemente spaccare le casse dello stereo (la famosa hit “Pompo nelle casse” è lì a dimostrarlo), far ballare e canticchiare la gente, il contenuto musicale invece non conta nulla, anzi, meglio se oscurato. Così si finisce sia per penalizzare determinati artisti (oscurandone la creatività) sia per dare alla gente una visione sbagliata di ciò che la musica dovrebbe essere; non c’è da sorprendersi se poi i giovani appena sentono un brano in cui il lavoro strumentale è messo in maggior evidenza - non necessariamente qualcosa di particolarmente difficile, anche roba tipo la chitarra di Mark Knopfler nei Dire Straits - rimangono basiti, arrivando a dire “ma cos’è sta roba?”.

Comunque tornando all’album va detto che la produzione non è tutto (allora così il primo disco dei Dream Theater non dovremmo ascoltarlo); alla fine le idee ci sono, quindi il feedback è piuttosto positivo e anche questi brani dal sound non proprio limpido hanno tranquillamente il loro da dire. Alla fine quando metti il disco in riproduzione te ne freghi di tutte le critiche che si possono fare e ti lasci trascinare tranquillamente (e sono proprio il primo che alla fine prende le cose per come sono e così si impegna ad accettarle). Tuttavia il buco nell’acqua c’è: è “Bleeding Out”. Quello sì che è un brano veramente vuoto, due suoni scarni buttati lì a casaccio e cassa che pompa a manetta come tanto va di moda, potrebbe essere tranquillamente un brano di Rihanna e non ce ne accorgeremmo nemmeno, dà proprio l’impressione di essere il classico brano paraculo creato per accontentare major e radio.

Giungendo alla conclusione potrei valutare il disco con un buon 6,5; il livello non è altissimo ma se avesse una produzione più convincente magari avrebbe anche qualche punticino in più. Ma intanto l’ho ascoltato insistentemente per circa un mese e la formula proposta mi è piaciuta, la reputo un buon punto di partenza. Attendo il nuovo album con abbastanza interesse e anche con una buona dose di fiducia, sperando in idee ancora una volta interessanti e se possibile anche in un sound migliore.

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