Quando è uscita “The Writing On The Wall” credo che in molti abbiano pensato che non si trattava di un gran pezzo, davvero niente di che. Una stanca ripetizione di stilemi. Ebbene, ora che ho ascoltato l'intero disco, posso dire che quella canzone mi sembra una delle più brillanti e fresche.

Non sono un ascoltatore enciclopedico dei Maiden, ma li conosco abbastanza e ultimamente li ho compulsati non poco, in particolare Seventh Son e Powerslave. Questo per dire che sono in una fase decisamente favorevole nei confronti della band di Harris, ho molta voglia di ascoltarli, tanto che oggi sono corso a comprare il disco in negozio (non era ancora arrivato). Poco male, ho messo le cuffie e sono entrato al Conad a fare la spesa. Intanto ascoltavo le canzoni su Spotify, immerso nei pensieri tra gli scaffali del caffè, i biscotti in offerta, le code alle casse. La prima sensazione è stata orribile, proprio brutta brutta. Forse il fresco confronto con i pezzoni degli anni Ottanta non aiuta ad apprezzare questa fase un poco senile (ho ripensato all'ultimo lunghissimo film di Scorsese e ho trovato un'affinità tra il regista, i Maiden e quei nonni che ti ripetono sempre la stessa storia - che sicuramente è emozionante, le prime volte - e con il passare degli anni ci mettono sempre di più ad arrivare al punto), ma credo che questo confronto con i giovani Iron sia illuminante per diversi aspetti, che travalicano il singolo disco e vanno a fissare alcune dinamiche generali della critica rock.

Dopo un primo ascolto completo ho aperto il web e ci ho trovato recensioni entusiastiche. Non tanto per il voto, non è quello il punto decisivo, ma proprio per i concetti. Un disco cupo, un disco ambizioso. Continua la nuova fase creativa degli Iron Maiden. Ho letto affermazioni di questo tenore. Il Guardian ha dato cinque stelle, Pitchfork 7.4, Kerrang sostiene che la traccia Senjutsu sia il migliore brano di apertura dai tempi di The Wicker Man. Un brano cazzuto, a loro modo di vedere. Insomma, poca critica vera e tante genuflessioni. Chiariamoci: il disco mi pare anche decente dopo alcuni ascolti, sicuramente dignitoso per essere il diciassettesimo, ma i toni enfatici dei giornali mi fanno specie. Li trovo fuori luogo, pubblicità più che analisi.

Era un po' che ci pensavo. Quante volte l'elogio dei giornalisti (soprattutto sui tempi lunghi, su dischi della fase tarda di una carriera) è arrivato per una sorta di connivenza con il successo di pubblico? Quante volte si è adeguato a esso? Quante altre volte invece un giudizio critico ha smosso l'opinione degli ascoltatori verso l'ascolto di un certo gruppo poco noto? Lo so, sono domande gigantesche, che per rispondere non basterebbe un librone scritto dal migliore degli esperti. Ci pensavo nei giorni scorsi: ha sempre fatto molto gioco ai giornali parlare bene dei beniamini del pubblico, specie ora che il rock è un genere poco battuto dai giovanotti. Ma in fondo possiamo biasimarli per questo?

Non so, non voglio giudicare questo album perché sono troppe le aporie alla base del giudizio critico. Cosa mi fa dire che un certo modo di suonare sia migliore di un altro? Il gusto personale, la moda del momento, il codice stilistico di un certo genere musicale. La mia età anagrafica e quella dei musicisti. Difficile però mantenere immutato il gioco della domanda e dell'offerta nell'arco di quarant'anni. Ad esempio, nel metal dei Maiden targati 2021 è più apprezzabile la velocità o la lentezza minacciosa? Perché a me i brani di dieci minuti che potrebbero durare quattro non fanno impazzire, ma gli stralci di recensioni che ho letto parlano positivamente di tendenze stile prog anni Settanta. A me sembrano i soliti Maiden, ma con canzoni dilatate, gonfiate, con numerose ripetizioni di strofa e ritornello, assoli a profusione (ma tutti molto simili e conservativi).

Finirà come con The Book of Souls, dopo innumerevoli ascolti assimili i brani e non ci fai più caso a tutti quei minuti di preliminari e lunghe code. Sicuramente c'è del buono da salvare, una vigoria non comune vista l'età, ma non prendiamo tutto per oro colato. In alcuni casi si sente la ripetizione di schemi musicali già ampiamente consolidati e messi a frutto quasi quarant'anni fa. Altri momenti funzionano meglio. Mi piace The Parchment, trovo che la sua lunghezza sia ben gestita e giustificata dai virtuosismi delle chitarre, Hell On Earth molto molto meno.

Non sono vecchio ma nemmeno giovanissimo, e credo di aver imparato una sola cosa in questa ventina d'anni di ascolti. La musica, come molte altre cose, è fortemente generazionale. Un inno identitario che serve ai giovani per trovare un credo, agli adulti per fissare una loro epica, agli anziani per coccolarsi nei ricordi. Qui abbiamo una band di sessantenni, ascoltata soprattutto da quarantenni-cinquantenni-sessantenni, recensita da altrettanti coetanei. È una generazione che invecchia insieme, non si tratta tanto di disquisire di musica.

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